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UNA NUOVA CLASSE DIRIGENTE PER CAMBIARE L’EUROPA

Inserito da on Maggio 16, 2014 – 6:33 pmNo Comment

Nella giornata internazionale per la Terra e di fronte all’ennesimo allarme lanciato dall’IPCC, che è un organismo dell’ONU, sulla minaccia che incombe sul pianeta per via dei cambiamenti climatici indotti dall’uso incontrollato dei combustibili fossili, gli uomini e le donne che governano l’Europa – la sua governance – hanno mostrato un encefalogramma piatto. Alla vigilia di una tornata elettorale che stabilirà la composizione del Parlamento e – forse – anche della Commissione europea, nessuno degli uomini e delle donne di punta di questa classe dirigente ha dato segno di ritenere la possibile fine della vivibilità sul nostro pianeta un argomento degno di attenzione, di riflessione, di decisioni. Non ci si può stupire, allora, che la medesima irresponsabilità, prodotta al tempo stesso da ignoranza, cinismo e opportunismo, quella classe dirigente la esibisca nei confronti di una crisi economica ormai in corso da più di sette anni, che sta devastando le vite di milioni di cittadini europei: in modo dirompente nei paesi più direttamente stremati dalle politiche economiche imposte dalle autorità europee, come Grecia, Italia, Spagna e Portogallo; in modo più selettivo, e solo per questo meno visibile, in tutti gli altri paesi, dove un numero crescente di lavoratori immigrati e nativi sostengono la crescita della produttività e della competitività con salari e condizioni di lavoro cinesi.

La verità è che quegli uomini e quelle donne non stanno lì per governare, ma per farsi comandare dall’alta finanza, che detiene il controllo dei debiti che loro hanno contratto a nostro nome e che in forza dei diritti del creditore impongono politiche che rispondono direttamente ai loro interessi. La fonte di legittimazione dei parlamenti e dei governi si è così spostata dal voto dei cittadini elettori (che non conta più nulla) a quello dei “mercati”, che sono poi un pugno di banche, di assicurazioni e di speculatori che controllano la finanza mondiale. Non sarà certo da tutti costoro che verranno indicazioni per salvare il pianeta dalla incombente catastrofe ambientale. Loro e i loro figli troveranno sempre un angolo della Terra dove mettere al sicuro i loro miliardi esentasse e dove perpetuare le loro vacanze. Quel trasferimento di poteri dai governi all’alta finanza non è stato però un processo “naturale” e inoppugnabile; è stato, e viene tuttora, alimentato in tutti i modi da leggi, provvedimenti e accordi che “politica” e finanza hanno concordato per confermarsi nei reciproci ruoli: non, come si dice, con un processo di “deregolamentazione”, bensì – come ben ha fatto notare Luciano Gallino – con il varo di sempre nuove regole, leggi e trattati, per garantire al capitale un potere incontrastato a livello globale.

Per questo volere una società diversa, più giusta e più compatibile con gi equilibri ambientali del pianeta richiede una sostituzione radicale della classe dirigente: a livello locale, nazionale, europeo e globale. Un obiettivo certo di grande portata e di lunga lena, ma che ci impone di cominciare a perseguirlo e a realizzarlo qui e ora. Quello che la ristrettezza di vedute di tutta la nostra classe dirigente, obnubilata dai compiti che l’alta finanza le impone giorno per giorno, non riesce a concepire, è la stretta interdipendenza tra la crisi ambientale di cui non vuole prendere atto, e la crisi economica – e sociale – di cui non fa che acuire le conseguenze catastrofiche con le misure che impone per affrontarla. Questa interdipendenza è invece immediatamente visibile in chi guarda al futuro invece di ostinarsi a riproporre un eterno presente che ci trascina verso il disastro: è la possibilità di difendere, sostenere ed espandere occupazione, redditi, servizi sociali, salute, istruzione, benessere, libertà, e persino un nuovo modo di lavorare, più conforme alle nostre attitudini e ai nostri talenti.Una possibilità che è indissolubilmente legata, insieme alla liberazione dalle catene del debito pubblico, a una radicale riconversione dell’apparato produttivo in direzione della sostenibilità ambientale; all’abbandono di produzioni che non hanno più mercato; o che lo hanno solo a condizione di un continuo sforzo di vendita per indurre i consumatori a comprare cose di cui non hanno alcun bisogno; o lo hanno solo facendo danno, e grazie al sostegno degli Stati, come le armi da guerra e molte delle Grandi opere devastanti in programma o in corso di realizzazione; o lo hanno solo se si riuscisse a competere con paesi che hanno salari un terzo o un quinto di quelli europei, sfruttamento del lavoro infantile, licenza di devastare l’ambiente e di escludere qualsiasi misura di sicurezza sul lavoro: che è ciò a cui, passo dopo passo, tendono le misure varate dai nostri governi – e dal governo Renzi con la velocità che lo contraddistingue – per sostenere una irraggiungibile “competitività” del sistema Italia. Questa stretta interdipendenza tra le risposte da dare alla crisi economica e quelle alla crisi ambientale rendono finalmente attuale l’utopia concreta che Alex Langer aveva delineato venti anni fa: “La conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile”.

La tutela dell’ambiente, a livello globale come a livello locale, richiede misure che incidono radicalmente sull’assetto sociale e istituzionale di governo dell’economia: non solo più giustizia ed equità nella ripartizione delle risorse a livello geografico – tra i diversi paesi – e a livello sociale – tra le diverse classi – ma anche e soprattutto autogoverno dei processi di produzione e distribuzione delle risorse: cioè riterritorializzazione al posto di globalizzazione. La rete ha reso possibile la circolazione istantanea dell’informazione su tutto il globo e sempre più, con la riduzione del digital divide, tra tutti gli abitanti della Terra; e le migrazioni hanno ormai trasformato ogni paese e città in entità multietniche, mettendo il tema della convivenza tra diversi al centro delle alternative politiche della nostra epoca; sono entrambi fatti positivi. Ma la “libera” circolazione planetaria delle merci e dei capitali – che si è tradotta in giganteschi processi di delocalizzazione delle attività produttive e in una corsa selvaggia alla competitività che azzera tutte le conquiste realizzate dai movimenti sociali e democratici degli ultimi due secoli e mezzo e in un’aggressione senza remore alle risorse del pianeta e all’integrità dei suoi equilibri – è la vera minaccia che incombe oggi sul tutti noi: sia sulla capacità della Terra di continuare a produrre e a rigenerare le risorse e gli equilibri ambientali necessari alla vita del genere umano che sulla possibilità di conservare i risultati e continuare a perseguire gli obiettivi di due secoli di lotte per la giustizia sociale e per assetti democratici sempre più avanzati.
Il tema della riconversione ambientale delle strutture produttive, sia a livello locale che planetario, va dunque messo al centro non solo di un programma di governo dell’Europa radicalmente nuovo, ma anche e soprattutto di processi di formazione di una nuova classe dirigente europea, capace di garantire a tutti i suoi cittadini e le sue cittadine un cambio di rotta radicale e permanente. Nel definire i primi passi di un processo di ampio respiro come questo i criteri a cui occorre ispirarsi possono essere sintetizzati in pochi punti dirimenti:

1. Non ci può essere vera capacità di governo senza capacità di ascolto. Gli attuali governanti europei, e soprattutto quelli italiani, non prestano più alcuna attenzione alle esigenze e alle aspettative del loro elettorato: prima delle persone, contano per loro le esigenze dell’economia che, nel contesto attuale, non sono che le disposizioni dell’alta finanza;

2. Il meccanismo attraverso cui si seleziona una nuova classe dirigente non può che essere quello della partecipazione. Partecipazione alle lotte, alle iniziative di cittadinanza, alle campagne e alle battaglie politiche e culturali; non partecipazione alla vita asfittica di aziende o autoreferenziale di partiti trasformati in trampolini di lancio per carriere e per indebite appropriazioni;

3. Non si parte da zero. Diffusa sul territorio c’è già un’ampia varietà di competenze professionali e di capacità di autogoverno sviluppate sottotraccia in tutti i paesi europei da centinaia di migliaia di cittadini e di lavoratori e lavoratrici in anni di emarginazione dai centri di potere e da ruoli istituzionali. Una nuova classe dirigente deve saper valorizzare queste competenze diffuse di ordine sia tecnico che sociale. Senza mettere al lavoro e valorizzare quello che tutti i cittadini hanno imparato o possono sapere – soprattutto attraverso un reciproco interrogarsi in contesti di condivisione – per il fatto stesso di vivere o di lavorare in un determinato ambito territoriale non è possibile far emergere né sottoporre a verifica nuovi approcci ai problemi economici e sociali con cui superare l’attuale situazione di stallo e di involuzione della politica e della società;

4. Combinare insieme competenze tecnico-scientifiche e saperi che derivano dalle esperienze condivise dei cittadini e delle cittadine che intendiamo rappresentare è l’obiettivo che ci ha spinto a presentarci alle prossime elezioni sotto le insegne della lista L’altra Europa con Tsipras. I nostri candidati e i nostri parlamentari saranno assistiti, già durante la campagna elettorale e soprattutto una volta raggiunto il Parlamento europeo, sia da team di intellettuali e di esperti che appoggiano la nostra lista, organizzati in base alle rispettive competenze professionali o disciplinari, sia dalle associazioni e dai comitati che l’hanno promossa o che si aggiungeranno ad essa nel corso del tempo. E’ questo un sistema che coniuga la democrazia rappresentativa e quella partecipativa. Sarà il modello di un modo di operare destinato a investire poco per volta tutti gli ambiti in cui ci proponiamo di combattere gli attuali assetti economici e sociali dell’Europa e le loro conseguenze sulle nostre vite e i nostri affari quotidiani. I nostri parlamentari non governeranno l’Europa dei prossimi cinque anni, né saranno forse decisivi per stabilire chi debba farlo. Ma metteranno all’ordine del giorno problemi e soluzioni vere, il resto è affidato alle lotte sociali che si svilupperanno in tutto il continente;

5. C’è, anche tra le nostre file chi queste cose non le ha ancora capite e non cerca di praticarle, continuando a riprodurre una logora riproposizione delle proprie identità perdenti e perdute. Per questo le linee di demarcazione tra chi è con noi, chi è contro di noi e chi va conquistato a una nuova prospettiva sono interamente da ridisegnare nel modo più aperto e solidale.