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Prendiamoci la città e altri scritti, storia di un percorso politico

Inserito da on Aprile 19, 2024 – 12:39 pmNo Comment

“Prendiamoci la città” era il progetto di estendere e sviluppare la lotta operaia, che in quegli anni attraversava con forza tutte le principali fabbriche italiane, spesso paralizzandole, su tutti i territori di riferimento – quelli abitati dagli operai e dalle loro famiglie – e sulle loro “istituzioni” – condomini, quartieri, ritrovi, uffici pubblici e privati, tribunali, carceri, ospedali, caserme, scuole e università, manicomi (c’erano ancora) – e su tutte le attività che vi si svolgevano: lavoro, produzione, consumo, svago, istruzione, cura; in modo da trasformare radicalmente, liberandole dai vincoli imposti dalle forme di dominio a cui erano sottoposte, tutte le relazioni tra le persone in un mondo che volevamo più libero.

L’intervento di Lotta Continua e, con esso, l’adesione al programma “Prendiamoci la città”, aveva, nel corso degli anni, coinvolto una molteplicità di strati e gruppi sociali: non solo operai e operaie di fabbriche grandi e piccole e studenti medi e universitari, ma lavoratori dei cantieri navali ed edilizi, medici, infermieri  e infermiere, tecnici e impiegati, soldati e ufficiali, poliziotti, pastori, contadini, pescatori, disoccupati e famiglie intere impegnate nelle occupazioni delle case e nel lavoro di organizzazione nei quartieri; e poi giornalisti, artisti, scrittori, poeti e poetesse, attori, registi, pittori,  scultori: insomma, una umanità quanto più varia. Era a tutti loro che si voleva parlare, ma, soprattutto, che si voleva far parlare.

Nel perseguire gli obiettivi di quel programma Lotta Continua si era diffusa in tutta l’Italia: dal nucleo iniziale di operai della Fiat Mirafiori aveva, anche grazie al loro impegno nei loro paesi di origine raggiunto decine e decine di città, dove aveva aperto delle sedi con centinaia e in alcuni casi migliaia di compagne e compagni impegnati nell’organizzazione delle lotte più diverse.

Lotta Continua non ha mai pensato al socialismo – e non lo ha quasi mai nominato – come meta finale del processo rivoluzionario, come assetto sociale stabile, alternativo al capitalismo, da instaurare una volta che la transizione si fosse compiuta. Ha sempre solo parlato di comunismo nel senso datogli da Marx, come “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”; e a questa impostazione si è sempre attenuta. Non era un approccio esclusivo della nostra organizzazione. Altri avevano già dato in vario modo a quel programma una loro interpretazione per molti versi analoga.

Per esempio, in anticipo sull’esplosione delle lotte operaie e sindacali degli anni ’70 che avrebbero interessato un po’ tutta l’Europa, un approccio analogo era stato reso esplicito dal leader dell’SDS (Lega degli studenti socialisti della Germania Federale) attraverso la formula di una “Lunga marcia attraverso le istituzioni”. Lunga, perché “processo”, senza una conclusione visibile. Marcia, con un esplicito riferimento all’epopea della Cina maoista, perché movimento di massa. Attraverso: cioè, non per “conquistare” le istituzioni, ma per destrutturarle dall’interno con la contestazione e la messa in crisi delle loro strutture gerarchiche. Istituzioni, cioè tutte le organizzazioni su cui si regge il potere nella società capitalistica: la fabbrica, la burocrazia statale, le forze armate, l’istruzione, il carcere, la giustizia, l’organizzazione della salute, la previdenza, il consumo, l’entertainment, la cultura…

Quello che veniva prospettato era comunque un processo mai compiuto, mai garantito rispetto a una sua possibile reversibilità, e mai graduale, perché continuamente esposto alla reazione delle forze interessate a fermarlo e a invertirlo: forze che nel corso degli anni ’70, soprattutto in Italia, non avevano mancato di agire e reagire in modo violento – spesso “sotto copertura” – attraverso l’esercizio, sia esplicito che nascosto, di quella che sarebbe poi passata alla cronaca e alla storia come “Strategia della tensione”. E non avrebbero mancato di ottenere dei risultati sostanziali. Tanto che i suoi eredi sono oggi al governo del nostro paese.

Per questo, a volte con un richiamo esplicito al passato della lotta partigiana, Lotta Continua non ha mai evitato di ricordare che lo scontro aperto con le forze della reazione avrebbe potuto rendersi necessario; non nel presente di allora, ma nei possibili sviluppi futuri della lotta di classe. Ma ha anche sempre escluso che fosse già arrivato il momento per agire in tal senso.

Anche per questo il lavoro di organizzazione dei soldati di leva – ma, in un secondo tempo, anche dei graduati – nelle caserme, in un movimento noto come PID (Proletari in divisa) aveva assunto la valenza di un’azione preventiva, tesa anche a disorganizzare le forze su cui avrebbe dovuto o potuto fare conto la reazione, evitando in tal modo la prospettiva di un confronto “in campo aperto” tra un proletariato in lotta e un corpo armato nel pieno della sua efficienza, in mano alla reazione.

D’altronde quell’ intervento era stato quotidianamente affiancato da un’attività di indagine, denuncia e contrasto – sostento anche da un massiccio servizio d’ordine – alle organizzazioni fasciste e golpiste che avevano spadroneggiato in Italia durante tutto l’arco degli anni ’70; e anche prima e anche dopo.

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