Abbiamo il debito pubblico più pesante d’Europa
“Abbiamo il debito pubblico più pesante d’Europa. E’ la nostra debolezza, ma paradossalmente la nostra forza. I default della Grecia o del Portogallo o perfino della Spagna , semmai dovessero verificarsi…sarebbero certamente sgradevoli ma sopportabili dall’Europa. Un default dell’Italia no, sconquasserebbe l’Europa intera con conseguenze negative non trascurabili perfino in Usa: il sistema bancario europeo (e non soltanto) ne sarebbe devastato…è questa la spada di Brenno che Letta può gettare sul tavolo della discussione con gli altri membri dell’Unione a cominciare dalla Germania”.
Queste parole di Eugenio Scalfari su Repubblica del 1.12. segnano, se prese sul serio, una svolta radicale nella linea politica di questo giornale che da giorno della “salita” al governo prima di Monti e poi di Letta è stato, al livello delle opinioni che “contano”, il principale puntello di quei due Governi e dei relativi Presidenti del Consiglio, che hanno fatto dell’accettazione incondizionata dei diktat economico-finanziari di Germania, BCE e Unione Europea la ragione stessa della loro esistenza e della loro legittimazione. Soprattutto perché a livello nazionale non hanno invece fatto altro che massacrare la popolazione che avrebbero dovuto guidare “fuori dalla crisi” e si sono entrambi rivelati tanto ridicoli quanto inetti (tanto per non rivangare altro, con il dramma degli esodati il primo o e la farsa dell’IMU il secondo).
Ora Scalfari ci spiega una cosa che già sanno persino uno studente del primo anno di economia o un bancario a inizio carriera: che quando il debito è consistente, il coltello dalla parte del manico (la “spada di Brenno”) ce l’ha il debitore e non il creditore. A condizione di saperlo/a e volerlo/a usare. Con l’Europa la posta in gioco è alta: si tratta di rinegoziare radicalmente i trattati dell’Unione e gli accordi della zona euro per riformare la BCE (e farne un prestatore di ultima istanza), azzerare il fiscal compact (eliminando l’obbligo di far rientrare il debito pubblico al 60 per cento del PIL in vent’anni), il pareggio di bilancio (e qui la spada di Brenno andrebbe rivolta contro i parlamentari italiani che l’hanno votato), la mano libera alla finanza (vietando il traffico di derivati di ogni genere non sostenuti da adeguati sottostanti), la “libera” circolazione dei capitali (con una vera tassa sulle transazioni finanziarie), rivedere l’unione bancaria (introducendo il vincolo della separazione tra banca commerciale e banca d’affari) e sostituire alla moneta “unica” una moneta “comune” (con flessibilità interna tra i vari Stati); e molte altre cose ancora. Altrimenti, kaputt.
Una minaccia che all’Italia costerebbe ben poco, perché è comunque il destino a cui le politiche, in successione, di Tremonti, di Monti e di Letta – cioè della BCE e, per suo tramite, dell’alta finanza internazionale – l’hanno condannata da tempo; come hanno fatto con la Grecia e con gli altri nostri compagni di sventura: Spagna, Portogallo, Bulgaria, oggi; e domani Francia, Ungheria e via andando.
Se la “svolta” di Scalfari segnala che alla fine anche un elementare buon senso si vede ormai costretto a prospettare soluzioni radicali, fino a oggi esecrate come la più irresponsabile delle ipotesi – “pericoloso anche solo nominarla”: così, per esempio, Felice Roberto Pizzuti – è però altamente improbabile che qualcuno dia seguito a quel suo consiglio: Letta non ha la tempra né la cultura per farlo; non ha una forza politica che lo sorregga in un passo di questa portata, avendo abbracciato – su indicazione di Napolitano – la strada del “galleggiamento” giorno per giorno; ma soprattutto non ha a disposizione un “piano B”: un’ipotesi per affrontare i problemi nel caso che le controparti rispondano picche al suo ricatto (perché di ricatto si tratta, anche se sarebbe una mossa sacrosanta).
Sulla tempra e la cultura di Letta (come su quelle di Monti, un “tecnico” portato in palma di mano da mezza Europa – la sua – e da tutto l’establishment italiano, e rivelatosi poi, insieme al cagnolino Empy, una mezza calzetta), sorvoliamo. Sulla sua forza politica, anche: i partiti delle larghe intese – ora ridotte a intese molto strette – sono allo sfascio: non sanno nemmeno come si chiameranno domani, né se esisteranno ancora. Quanto al “piano B”, non si tratta di bazzecole, o di misure che possano essere affidate a un “consulente esterno” qualsiasi, come un Bondi o un Cottarelli sulla spending review; o a ministri che non sono stati nemmeno capaci di calcolare il reddito medio dei deputati europei, avendo alle spalle tutto il personale tecnico dell’Istat, come Giovannini; o l’impatto dell’abolizione dell’IMU, come Saccomanni, che pure ha diretto per anni, chissà come, la Banca d’Italia.
Il “piano B” è una strategia che richiede studi, confronti, verifiche e soprattutto consenso: tutte cose che l’attuale compagine di governo non ha la minima idea di che cosa siano. Ma che mancano anche a chi ricorre alla formula semplicistica e demagogica di “uscire dall’euro”: quasi che si potesse tornare alle cose di una volta: quando bastava svalutare la moneta per recuperare competitività e mercati di esportazione. Quella convinzione rappresenta in realtà la quintessenza del liberismo: l’idea che sia il mercato a regolare l’economia e che una variazione dei prezzi internazionali basti per rilanciare lo sviluppo. Un “piano B” invece non può che essere una strategia. Una strategia che deve poter funzionare tanto nel caso, assai improbabile, che l’Italia venga esclusa o si autoescluda dall’euro, o in quello, assai più verosimile, che l’euro si dissolva – nel caos di una serie di default incontrollati – per via delle sue contraddizioni, quanto nel caso che tutte o le principali richieste relative a una rinegoziazione dei trattati venissero accolte: perché il riordino del sistema finanziario che detta legge in Europa e nel mondo è sì necessario, ma di sicuro non sufficiente.
Al suo fianco ci vuole un programma per rimettere in piedi l’economia reale, cioè reddito, occupazione e servizi sociali (scuola, sanità, cultura, pensioni, ecc.); che non vuol dire rilanciare l’araba fenice della “crescita” (“che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”), ma valorizzare le competenze umane e il patrimonio di impianti, di know-how e di risorse materiali e ambientali che il trend economico in atto sta mandando in malora a livello locale, nazionale, europeo e mondiale.
“Vaste programme”, avrebbe detto de Gaulle. Si dia il caso, però, che quello a cui né Letta, né Monti, né Tremonti, né Scalfari, né tutti quelli come lui non hanno mai pensato, sia invece da anni – anzi, da decenni – al centro della riflessione, degli sforzi, delle buone pratiche, del confronto e dei dibattiti che coinvolgono milioni e milioni di donne e di uomini di buona volontà, riuniti in comitati, movimenti, associazioni, forum e reti di varia natura e impegnati, anche se nessuno ne parla, in lotte, anche durissime e a volte mortali, in tutti gli angoli del pianeta, Italia compresa.
E’ un programma di radicale conversione ecologica dell’apparato economico e degli stili di vita (ovvero dei modelli di consumo) teso a salvare il pianeta dalla catastrofe ambientale e dai mutamenti climatici in corso (ciò di cui, ancora una volta, si è fatto beffe il vertice COP 19, riunito a Varsavia dal 23 al 29 novembre con i delegati di tutti i “governi Letta” del mondo) e, al tempo stesso, teso a valorizzare al massimo le risorse umane, materiali, ambientali e tecnologiche di cui l’umanità può disporre per rendere meno iniqua la distribuzione del potere e della ricchezza e più accettabile la condizione umana per tutti. Non si tratta di utopie astratte, ma di progetti concreti, alla portata di tutti, perché imperniati su una partecipazione attiva (da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni) e sulla ri-terrritorializzazione dei processi economici: cioè sul riavvicinamento sia fisico che organizzativo tra produzione e consumo; tutto l’opposto dell’accentramento politico e finanziario in corso e della globalizzazione dei mercati che mette in concorrenza tra loro miliardi di individui, di cui si sono nutriti tanto lo “sviluppo” degli ultimi decenni, quanto le politiche di risanamento che hanno ridotto, oggi la Grecia e domani l’Italia, a una condizione peggiore di quella di un paese devastato dalla guerra.
E’ un programma che non può essere perseguito a livello nazionale, perché è al tempo stesso locale – le cose vanno fatte innanzitutto là dove tutti possono partecipare alla loro realizzazione – e sovranazionale: i problemi di fondo sono quasi ovunque gli stessi, come uguali per tutti sono i poteri da abbattere o da riformare. Per questo la partita fondamentale per tutti noi si giocherà nel prossimo futuro a livello Europeo: proprio come dice Scalfari. Ma a giocarla dobbiamo essere noi tutti, trovando la strada per far sentire la nostra voce a livello europeo; e non Letta e i suoi pari, che non ne saranno mai capaci.
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