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Casa comune o coalizione sociale?

Inserito da on Marzo 3, 2015 – 11:32 am2 Comments

Per raccogliere le proposte di Landini e Rodotà di dar vita a una coalizione sociale che superi ciò che ha finora impedito in Italia la nascita di un fronte di opposizione adeguato – un progetto che verrà battezzato il 28 marzo – è forse opportuno partire da una questione che non è solo terminologica. Naturalmente questa è un’interpretazione che non impegna coloro che hanno rilanciato il termine coalizione sociale, che è centrale anche nella bozza di una “carta di intenti”, purtroppo respinta dal comitato preparatorio dell’assemblea di gennaio de L’Altra Europa. Promuovere una coalizione sociale è un progetto che presuppone un accordo tra alcuni o molti movimenti sociali. Che si qualificano tali – cioè sociali – non perché “rappresentino” la società o una parte di essa (questo sarebbe, caso mai, il compito di un partito, per chi ancora lo crede possibile; o di una diversa organizzazione politica, per chi ritiene l’esperienza dei partiti superata); ma perché perseguono una finalità sociale o ambientale specifica intorno a cui hanno raccolto una comunità o una parte significativa di società: movimenti come NoTriv, NoMuos, NoGrandinavi, movimenti per la casa e contro gli sfratti, reti di studenti, di insegnanti, di “partite Iva”, movimenti contro il precariato, la miseria, le mafie, il razzismo, comitati per la difesa della Costituzione, della scuola pubblica, mobilitazioni contro inceneritori, cemento, autostrade, contro la privatizzazione dei servizi pubblici o dei beni comuni, ecc. Ma anche, e soprattutto, organizzazione del lavoro, come Fiom, sindacati di base, RSU, o  reti di RSU. Ed è anche il caso di molti centri sociali il cui scopo principale è l’aggregazione di persone che non hanno altro modo di rompere il loro isolamento. Poi può succedere che intorno a un movimento sociale di questo tipo, grande o piccolo, si sviluppino altre pratiche che lo rafforzano e ne estendono la presa: cioè che li rendono protagonisti del “fare società”, di nuovi e più sani rapporti sociali. E’ il caso del movimento NoTav della valle di Susa, di diversi centri sociali, di alcuni GAS, e di molti altri. Certo giustapporre tanti obiettivi sociali specifici non basta a fare un programma politico, anche perché alcuni sono in contraddizione tra loro; e meno che mai un’organizzazione unitaria. Ma la reciproca comprensione e accettazione, con il fine di arrivare, adattandosi l’un l’altro, alla riformulazione di obiettivi e di pratiche e alla loro condivisione costituisce l’essenza stessa di una coalizione sociale; ciò che ne fa un progetto politico. In questo caso la differenza la fa  il “lavoro politico” per mettere i diversi movimenti in contatto e in una reciproca relazione costruttiva. E’ quello che L’Altra Europa era nata per fare e non ha fatto: un’occasione perduta, come ha detto Rodotà. L’Altra Europa non è un “movimento sociale”: era un’organizzazione politica che intendeva promuovere una coalizione sociale. La distinzione dei ruoli tra movimenti sociali e organizzazione politica va rispettata per non perdere pezzi per strada: troppi movimenti, a partire dal Social Forum di Genova, si sono infatti “spenti” per le eccessive interferenze di organizzazioni politiche preesistenti.
In questa accezione, una coalizione sociale non è un blocco sociale, termine con cui è stato proposto di sostituirla: blocco sociale va inteso come insieme, dai confini assai più indefiniti, di gruppi, ceti o classi sociali che, complessivamente, si riconoscono in alcuni importanti orientamenti comuni (se vogliamo, valori) sia di carattere sociale che politico, economico e ideale (o culturale). Un blocco sociale non è il risultato di un accordo esplicito, ma di un’adesione spontanea, più o meno consapevole, agli indirizzi proposti da un’organizzazione strutturata: un tempo un partito, o un arco di partiti, cosa che oggi non c’è più; e che difficilmente può essere richiamata in vita con un rinvio al modello dei “fronti popolari” di un tempo. Oggi quel che resta della sinistra non ha alcun blocco sociale a cui fare riferimento. Ma è esattamente ciò che una coalizione sociale nuova si dovrebbe proporre di ricostituire.
Ma per promuovere tra tutti i partecipanti una autentica condivisione di obiettivi, di modi di operare, di stili di vita, di “visione” bisogna attrezzarsi per farlo.

In quella bozza di carta di intenti per L’Altra Europa si affrontava in modo esplicito questo problema, proponendo di articolare il progetto della coalizione sociale da costruire in tre diversi livelli:
–          Assemblee di quartiere, di paese, di azienda, di distretto,  aperte a tutti, dove affrontare i problemi specifici di ogni lotta e di ogni iniziativa;
–          Una “consulta” in ogni territorio e una a livello nazionale, a cui partecipano tutte le organizzazioni disponibili, purché democratiche, antifasciste e antirazziste. In questa sede potranno venir promosse o concordate – tra tutti o solo con alcuni – progetti, campagne e iniziative di lotta comuni [comprese], tra chi ne condivide l’opportunità, liste elettorali a livello comunale e regionale come passi necessari verso una lista unitaria nazionale;
–          Gruppi di lavoro tematici – locali e/o nazionali – per analizzare specifici campi o sviluppare una cultura critica su di essi, in cui coinvolgere anche le personalità e gli studiosi impegnati nel sostegno dei movimenti; ma soprattutto per promuovere, come Syriza in Grecia, iniziative pratiche per affrontare le carenze dei servizi pubblici e fronteggiare le sofferenze di chi è rimasto senza reddito, senza casa, senza assistenza sanitaria, senza accesso all’istruzione.
Lavorare insieme in questi tre ambiti è la sostanza del processo di aggregazione di una coalizione sociale a cui tutte le organizzazioni interessate possano concorrere su un piede di parità. In essi L’Altra Europa si impegna a operare organizzata in comitati territoriali costituiti da tutti coloro che sottoscrivono questa carta di intenti e a cui possono aderire anche persone affiliate ad altre organizzazioni, ma mai come rappresentanti delle stesse (nel qual caso le sedi appropriate sono le consulte).
Ma perché quella bozza era stata respinta? Perché al progetto di una coalizione sociale – oggi, come scrivono alcuni, “tornato di moda” grazie a Rodotà e a Landini – era stato contrapposto frontalmente il disegno di un “soggetto unico della sinistra e dei democratici”: un’espressione che rinvia, quale che ne sia l’interpretazione, a un’organizzazione monolitica, votata non all’inclusione delle diversità, ma all’esclusione del dissenso. Poi, nella stesura finale del documento Siamo a un Bivio presentato all’assemblea de L’Altra Europa, il termine “soggetto unico” era stato sostituito con “casa comune” della sinistra e dei democratici (senza peraltro espungerlo: ricorre infatti poche righe più in là come “soggetto politico unico e plurale”: un ossimoro). Ma “casa comune delle sinistre e dei democratici” non è solo una formula quasi impronunciabile (e non meno ridicola di Human Factor: entrambe hanno ben poche possibilità di “scaldare i cuori”). E’ soprattutto una formula che rimanda esclusivamente al piano politico – cioè al progetto di una aggregazione di organizzazioni esistenti, o dei loro vertici – in cui il sociale, a cui il manifesto Siamo a un bivio dichiara di voler “ancorare” quella casa comune, figura come mera appendice. O, per usare un’espressione che ricorre spesso tra i suoi sostenitori, procurare un “rappresentato” al “rappresentante”: cioè, una base sociale più larga alle organizzazioni politiche esistenti. In entrambi i casi – casa comune e Human factor – un calderone: in cui vengono meno tanto l’autonomia dei movimenti sociali – condizione irrinunciabile della loro vitalità – quanto la necessità di sottoporre le proprie scelte politiche alla verifica di un rapporto con le realtà sociali organizzate. Questo è il punto. Per esempio, non si può pronunciarsi nei comizi contro il Tav Torino-Lione e poi partecipare a una giunta capofila nella repressione del movimento NoTav; opporsi – a parole – alla privatizzazione dei servizi pubblici e poi votarla o entrare addirittura nei consigli di amministrazione delle S.P.A. che li gestiscono; partecipare a una giunta ròsa dalla corruzione senza mai accorgersi o denunciare quello che è da tempo sotto gli occhi di tutti; sostenere la conversione ecologica e opporsi al sostegno di un movimento che combatte le trivellazioni; dichiararsi antirazzisti e poi appoggiare la cacciata dei Rom dal territorio comunale. E potrei continuare. Nessuno è ovviamente esente a priori da contraddizioni come queste; ma la partecipazione a una coalizione sociale strutturata a diversi livelli può permettere di sottoporli a una verifica. E soprattutto di unire quello – e quelli, e quelle – che in un dato momento è possibile unire su determinati obiettivi, senza con ciò compromettere l’immagine e l’identità di altre organizzazioni che concordano su alcuni punti e non su altri. Insomma, una coalizione sociale è un processo flessibile, sempre in corso che richiede ai partiti e alle organizzazioni politiche un passo indietro.