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Uber: multinazionali e mobilità del futuro

Inserito da on Maggio 26, 2014 – 8:21 pmNo Comment

Uber è una multinazionale del trasporto passeggeri creata da Google e finanziata da Goldman Sachs, due delle maggiori potenze economiche del capitalismo finanziario del nostro tempo. Come tutte le società di questo tipo, Uber risponde al modello di business e di impresa imposto dalle forme attuali del capitalismo: una “testa” finanziaria transnazionale e una rete di subappalti che generalizzano il precariato in tutte le sue forme, cioè sia come lavoro dipendente che come lavoro autonomo o come impresa. Uber non ha struttura né personale, se non un numero limitato di manager che gestiscono i suoi affari nei diversi paesi in cui opera. Per il resto, utilizza uno stuolo di avvocati per combattere in tribunale chi si oppone al suo business, squadre di programmatori messi a disposizione da Google, i gestori delle carte di credito e poi, da un lato, tante imprese o di singoli operatori di noleggio con conducente (NCC), nella posizione di fornitori del servizio nella versione Uber Black, cioè lusso, con tariffe superiori a quelle dei taxi, da un lato; e qualsiasi persona disposta a mettere a disposizione se stessa e la propria auto, per poche ore, pochi giorni o tutto il tempo, nella versione economica (Uber pop), con tariffe concorrenziali nei confronti dei taxi.

Nel primo caso Uber non assume nessuna responsabilità sulle condizioni (salario, orario, sicurezza, regolarità) alle quali vengono assunti gli autisti delle società di NCC. Nel secondo, chiunque può diventare un operatore di Uber e il controllo sulla sicurezza dei veicoli e dell’autista è interamente affidato alla discrezionalità della società capofila; cioà Uber stessa. Anche per quello che riguarda le tariffe, non esiste alcun controllo pubblico. Vengono determinate da Uber, nella versione pop, con un compenso riconosciuto all’autista di 48 centesimi al minuto, misurati sul cellulare dell’autista, se si degna di farlo. Nella versione Black, la tariffa è del tutto discrezionale, tranne che per alcuni percorsi fissi. In entrambi i casi, a riscuotere la tariffa, tramite prelievo dalla carta di credito del cliente, è Uber. Per questo Uber non è, come pretende di essere, un mero intermediario tra domanda e offerta di spostamenti, né tantomeno, un mero algoritmo immateriale, ma un vero e proprio fornitore di servizi. Che però non è soggetto alle regole a cui tutti gli altri devono sottostare.
Di fatto, con questo modello di business, l’obiettivo di Uber non può essere che l’occupazione di tutto lo spazio del trasporto a domanda urbano ed extraurbano, e il raggiungimento, con un dumping reso possibile dalla sua potenza finanziaria, di una posizione monopolistica in ogni città. Perché, una volta espulsi tutti i taxisti e gli operatori indipendenti di NCC, questo permetterà a Uber di imporre ai passeggeri le condizioni che vorrà. Si tratta in altre parole di un progetto di privatizzazione e di deregolamentazione totale del trasporto a domanda, senza nemmeno ricorrere a un passaggio di mano, ma semplicemente minando dal basso le condizioni operative dello stesso.

Non è un caso quindi che Uber abbia suscitato rivolte generalizzate di taxisti e compagnie di NCC indipendenti in tutti i paesi in cui opera. Rivolte che in alcuni casi, come in Belgio, hanno vinto e indotto a mettere fuori legge questo sistema. Ma è importante capire che questo modus operandi non è che un’anticipazione, nel campo di un particolare servizio, di tutto ciò che si intende imporre all’Europa con il TTIP (il trattato transatlantico su commercio e investimenti). Un trattato che mira appunto a lasciar mano libera alle multinazionali nell’organizzare a modo loro, al di fuori di qualsiasi regolamentazione, produzione, commercio e servizi, senza dover sottostare alle norme e alle leggi che dovrebbero governarne il funzionamento.

Così, se Uber la spunta, il trasporto a domanda, ma forse anche tutto il trasporto pubblico, locale e non, cesserà di essere un servizio pubblico, cioè regolato da un’autorità pubblicamente riconosciuta – e democraticamente eletta – sostituito da un’attività privata, controllata in forma monopolistica da una grande impresa finanziaria interessata solo ai corsi e ai rendimenti delle proprie azioni. E gli addetti al servizio saranno solo più lavoratori precari ingaggiati da qualche impresa che lavora in subappalto, o in subappalto del subappalto, alle condizioni imposte dal committente “di ultima istanza”; oppure saranno dei privati cittadini alla ricerca di qualche mezzo per sbarcare il lunario mettendo a disposizione le loro automobili: facili prede di caporalati e organizzazioni mafiose, come accade già oggi nel settore dei taxisti abusivi. Chi avrà il controllo di tutto il servizio non avrà ovviamente alcun interesse a garantirne una erogazione uniforme su tutto il territorio; lo farà solo dove conviene. All’inizio nessuno si accorge del cambiamento, che può anche essere considerato vantaggioso. Perché le conseguenze si pagano in seguito.

Dall’altra parte, quella dei taxisti in lotta, non mancano certo le debolezze. I taxisti, in particolare quelli italiani, sono prigionieri di un mercato delle licenze (a Milano, Firenze e Roma fino a 200mila euro l’una) che li sbanca, li indebita, e li costringere a praticare tariffe tra le più alte d’Europa per rifarsi di quell’esborso; e che e li espone alla minaccia continua di perdere tutto il loro investimento in presenza di qualsiasi misura di liberalizzazione. Uscire da quella gabbia non è facile. Per esempio, se il Comune di Milano, per risarcire i taxisti esborsi sostenuti per comprare le loro licenze, decidesse di riacquistarle a prezzi di mercato – dopo averne lasciato lievitare il prezzo per decenni per motivi clientelari, dovrebbe sborsare più di un miliardo di euro. E, in misura corrispondente, dovrebbero farlo tutti gli altri Comuni. Essendo impossibile, va messo in cantiere un piano di deflazione graduale del mercato delle licenze, in modo che chi la cede non debba perdere dall’oggi al domani tutto il valore del suo investimento, che i taxisti considerano la loro liquidazione, la loro pensione, la loro assicurazione sulla vita.
In altri paesi il servizio di taxi è gestito sia da società, titolari delle licenze, che poi utilizzano lavoratori dipendenti, ma più spesso subappaltano il servizio a operatori autonomi, sia, come da noi, da operatori individuali. Ma la garanzia della qualità del servizio e delle condizioni di lavoro è garantita solo da quest’ultima modalità, la prima essendo fonte di abusi e di forme di rendita parassitaria del tutto ingiustificate (i taxisti degli Stati Uniti ne sanno qualcosa). Lo stesso accade per il servizio NCC; ma quando è in mano a imprese che operano con lavoratori dipendenti, a questi dovrebbero venir garantite condizioni di lavoro definite in sede di contrattazione nazionale.

Per contrastare in maniera adeguata l’invasione di Uber o di società analoghe, alcuni principi andrebbero comunque tenuti fermi. Innanzitutto il trasporto passeggeri a domanda deve essere un servizio pubblico, regolato – per quanto riguarda licenze, tariffe, condizioni operative e sicurezza – dalle autorità comunali a cui nessuno operatore deve potersi sottrarre. Poi, in ogni città il servizio di taxi deve essere gestito in modo unitario. Tante centrali di chiamata o, peggio, tante società differenti in concorrenza tra loro, o peggio ancora, diversi livelli di servizio non fanno che frantumare l’offerta allungando i tempi di risposta alle chiamate, che è il principale parametro su cui misurare la qualità del servizio. È vero poi che le tecnologie moderne, ma anche dei semplici dispositivi che indichino la destinazione del veicolo anche all’esterno, consentono modalità più efficienti di incontro tra domanda e offerta e, in particolare la combinazione dei percorsi di più passeggeri con itinerari e orari compatibili (taxi collettivo)’ con possibilità di ripartire equamente la tariffa tra clienti differenti, riducendo drasticamente il costo del servizio. Soffocati da un clientelismo che li ha resi potenti, prepotenti, a volte maleducati e per lo più indifferenti alle esigenze dei clienti, i taxisti e soprattutto le loro associazioni sono stati finora restie a impegnarsi in direzione di una maggiore efficienza e diversificazione del servizio, con la conseguenza di lasciare adito all’ingresso di operatori come Uber che, sfruttando tecnologie da cui i taxisti si sono tenuti lontani, possono vantare una maggiore efficienza, peraltro tutta da verificare. Ma lo scopo effettivo è quello di occupare il mercato, privatizzare e deregolamentare completamente il servizio, mettendo in serio pericolo non solo il “posto di lavoro” dei taxisti e di molti operatori di NCC, ma anche la qualità del servizio.

Il servizio pubblico di trasporto passeggeri a domanda ha davanti a sé un grande avvenire, perché è destinato a colmare progressivamente gli spazi lasciati liberi dai processi di demotorizzazione in corso e dai limiti sempre più stretti imposti al traffico urbano privato. Ma deve sapersi adeguare rapidamente ai nuovi contesti in cui si trova e si troverà sempre più a operare. E’ questa la grande sfida della mobilità flessibile.