Sulle potenzialità di un revamping del gruppo Fincantieri (il manifesto, 28 maggio 2011)
L’Italia è naturalmente dotata di due straordinarie autostrade del mare in grado di collegare, una – il Tirreno – Trapani, Palermo e Napoli con Livorno, La Spezia, Genova e Savona; ma anche con Marsiglia, senza bisogno di scavalcare o perforare le Alpi con un'”autostrada ferroviaria” (il TAV Torino-Lione ) tanto costosa quanto inutile e dannosa; o di scavalcare lo stretto di Messina con un ponte altrettanto assurdo. L’altra – il mare Adriatico – Catania, Crotone e Bari con Ancona, Ravenna e Trieste. Se tutto il traffico merci di lunga percorrenza che attraversa la penisola e tutto il traffico automobilistico di carattere turistico – o anche solo una loro quota consistente – fossero deviati su queste autostrade, la rete viaria in terraferma sarebbe sgombra e a disposizione di chi ha da percorrere itinerari più brevi; i consumi energetici e le emissioni di gas serra si ridurrebbero drasticamente; e così pure l’inquinamento. Ma, soprattutto, si ridurrebbero i costi del trasporto e se ne avvantaggerebbe molto la famosa competitività delle produzioni italiane che oggi la Confindustria e il sistema delle imprese italiane sembrano inseguire quasi esclusivamente attraverso la compressione del costo e dei ritmi di lavoro e il ricorso al lavoro precario o a quello in nero.
L’idea di utilizzare di più e meglio le autostrade del mare italiane non è una grande trovata: se ne parla da decenni e la prospettiva aveva preso una dimensione concreta con il Piano nazionale dei trasporti messo a punto dal primo Governo Prodi sotto la direzione della professoressa Vittadini. Ma poi non se ne è fatto quasi nulla e oggi il traffico di cabotaggio via mare copre una percentuale infima di quello che da Nord a Sud – e viceversa – intasa le nostra autostrade e satura il numero sempre più ridotto di convogli che trasportano merci “su ferro”.
Se le autostrade del mare italiane venissero attivate, quand’anche, come è giusto, gradualmente, gli impianti di Fincantieri avrebbero lavoro assicurato per almeno i prossimi vent’anni, e anche oltre. Gli operai e i tecnici di Fincantieri le navi le sanno costruire; di tutti i tipi. Oggi la loro azienda si è concentrata su quelle da crociera, e sta perdendo il mercato; perché la domanda è debole e il lavoro per questo tipo di navigli si fa quasi tutto fuori dai cantieri; e sulle navi da guerra, perché il mercato dei massacri invece “tira”. Ma in un segmento di mercato come questo i paesi committenti, giustamente, hanno detto: se le navi sapete farle, venite a farle da noi; così Fincantieri ha portato all’estero i suoi cantieri, ma non i loro operai; questi, caso mai, li importa dai paesi dell’Est: costano meno, sono più ricattabili e ce ne si può sbarazzare più facilmente.
Eppure, se uno dei cardini della riconversione produttiva del sistema economico è costituito da una mobilità che riduca il suo impatto sul territorio (e sul pianeta), il passaggio modale dalla strada al mare è una soluzione irrinunciabile. Ma allora, perché non la si imbocca con maggiore determinazione? I tracciati – i mari – ci sono già: a farli ci ha pensato la Natura, mentre quelli stradali e ferroviari bisogna costruirli a caro prezzo, devastando il paesaggio. Mancano i convogli: cioè le navi Ro-Ro (roll in-roll out), che sono quelle che possono attraccare senza rimorchiatore, caricando e scaricando in pochissimo tempo i mezzi. Quali mezzi? Tecnicamente, nel trasporto merci, è sufficiente far viaggiare i rimorchi, senza imbarcare anche le motrici con l’autista al seguito; anche se la cosa, come vedremo, è alquanto complicata. Poi mancano i caselli autostradali, cioè porti adeguatamente attrezzati per smistare grandi volumi di questo traffico. Realizzarli darebbe molto lavoro alle città portuali e, soprattutto, contribuirebbe a riqualificare la loro attività. Perché se le merci viaggiano in container, o anche sfuse, possono essere caricate su un convoglio ferroviario per proseguire il loro cammino. Ma se viaggiano su un bilico, un autorimorchio, sarebbe opportuno che il rimorchio venisse sganciato dalla motrice al momento dell’imbarco e riagganciato da un’altra motrice, con un altro autista, quando riprende il viaggio via terra. Far viaggiare motrici e autisti su una nave raddoppia inutilmente i vettori e il personale viaggiante; e con essi i costi, anche se comunque è sempre più economico del trasporto su strada.
Ma perché lo stesso rimorchio sia preso in carico da due motrici diverse – una prima dell’imbarco e l’altra dopo lo sbarco – bisogna che i loro autisti siano d’accordo e se non sono entrambi dipendenti da una grande impresa di trasporto, ma sono dei “padroncini”, come oggi in Italia succede nel novanta per cento dei casi, bisogna che a metterli d’accordo sia un’organizzazione comune: per esempio una delle multinazionali di logistica che ha in carico l’intero itinerario del carico. Ma questa, se e quando c’è, si avvale per lo più di imprese di spedizione in subappalto; e sono queste, a loro volta, a reclutare i “padroncini”, che non sono che il terzo o anche il quarto anello di questa catena; quando non sono loro a farsi reclutare sulla piazza, insieme al loro camion, come dei braccianti a giornata ingaggiati da un padrone saltuario ogni volta diverso. La grande impresa, però, preferisce beneficiare dei vantaggi offerti dalla concorrenza selvaggia tra una miriade di operatori, dove lo spazio offerto a mezzi fuori norma e ad autisti spericolati dell’Europa dell’Est è in continua crescita.
L’alternativa è allora un consorzio – magari obbligatorio, o, meglio, l’affiliazione al quale sia vincolante per l’accesso alle navi Ro-Ro – che provveda, con il ricorso alle tecnologie più moderne, a coordinare imbarchi e sbarchi, a ottimizzare i carichi e i percorsi, a garantire i carichi di ritorno, a contrattare le tariffe con le controparti e con i vettori navali, a escludere i mezzi fuori norma e gli autisti che mettono a rischio la propria e l’altrui vita con orari di guida troppo lunghi e tempi di percorrenza troppo corti. Gli autisti – tutti, autonomi o dipendenti – ci guadagnerebbero in soldi e salute; il paese in qualità dell’ambiente e in sicurezza sulle strade; il “sistema delle imprese” in competitività e autonomia. Ma chi pagherà tutto questo?
Se solo i fondi destinati a due opere totalmente inutili come il TAV Torino-Lione e il ponte sullo stretto fossero destinati a un programma del genere (per esempio alla ristrutturazione dei porti e del loro hinterland) un buon tratto di questo percorso sarebbe già garantito. Inoltre, a promuovere il passaggio al trasporto intermodale lungo le autostrade del mare potrebbe concorrere un graduale aumento delle tariffe autostradali (purché a incassarle non sia Benetton e servano a finanziare il nuovo sistema) e i fondi dell’Unione europea destinati (come il programma Marco Polo) al finanziamento del trasporto a minore impatto ambientale. Ma il problema prioritario è quello di affrontare due delicati passaggi, evitando che i diktat del liberismo annientino i vantaggi che si possono ricavare da questa soluzione; garantire con accordi di programma le transazioni tra Fincantieri, che dovrà costruire le navi, e l’armatore – o, meglio, un consorzio di armatori – che dovrà gestire la flotta Ro-Ro; e poi, le transazioni tra questo e il consorzio, o i consorzi, di autotrasportatori che quella flotta dovranno utilizzarla. L’uno non si tiene senza l’altro: se gli armatori non avranno un mercato garantito dagli autotrasportatori non potranno a loro volta offrire un mercato garantito a Fincantieri perché avvii questa nuova linea produttiva.
E’ questa una violazione della normativa europea sulla concorrenza? Può darsi, ma non è detto. Se una potenza come la Volkswagen ha potuto fare non solo un accordo di programma, ma una vera e propria società con un’azienda di distribuzione dell’energia elettrica per assicurare un mercato captive, cioè garantito, ai propri microcogeneratori, senza doversi esporre alla concorrenza di altri produttori di impianti analoghi, non si vede perché, all’interno di un programma finalizzato alla salvaguardia dell’ambiente e della sicurezza stradale, non si possano stringere accordi per garantire un mercato a una così importante riconversione produttiva.
Dunque la palla è in mano ai centomila e più autotrasportatori italiani che intasano le strade e le autostrade del belpaese: un popolo indisciplinato peggio di un’assemblea di condomini e tendenzialmente conservatore almeno quanto i camioneros che quarant’anni fa avevano messo alle strette il Cile di Allende; ma anche un popolo che si trova sempre più con l’acqua alla gola e che governi di destra e di sinistra hanno cercato di “tener buono” con gli sconti sulle accise del gasolio messi al bando dall’Unione europea (e la cui abolizione potrebbe essere un’altra possibile fonte di finanziamento di un loro associazionismo ambientalmente consapevole). La palla passa dunque alla politica. E purtroppo non è, o non è solo, una politica che si possa promuovere dal basso, senza una prospettiva complessiva a livello almeno nazionale. Ma per concretizzare e consolidare l’appoggio e la solidarietà con i lavoratori di Fincantieri da parte di tutte le categorie sociali che in questi giorni si manifesta nelle città colpite dai piani di ristrutturazione dell’azienda non c’è altra strada. E ancora una volta tocca alla FIOM fare da punto di riferimento di un’aggregazione sociale che vada al di là della protesta. La posta in gioco è talmente alta, e il rischio per i lavoratori coinvolti nel settore (le maestranze di Fincantieri; ma certo non solo loro) è talmente grande, che un impegno nel merito dovrebbe e potrebbe coinvolgere molti altri soggetti. L’importante è cominciare.