parte la campagna contro la legge Fornero che sta devastando il paese – [Il Manifesto 22.12.2013]
Venerdì 20 dicembre a Milano, in una sala della Provincia, si è svolta un’assemblea “autoconvocata” (cioè promossa dai partecipanti e non dai sindacati di riferimento) di 150 Rsu (le rappresentanze sindacali unitarie, quelle elette direttamente dai lavoratori degli enti o delle aziende; da non confondere con le Rsa, che sono quelle nominate dalle strutture confederali). Vi hanno partecipato anche alcuni delegati del movimento degli “esodati” (che sono ancora quasi 250mila, nonostante che il Governo dia per risolto il problema) e dei “Disoccupati over 50”, che non si sa quanti siano, ma sicuramente più di un milione. Tema dell’incontro: il lancio di una campagna nazionale per l’abolizione della legge Fornero sulle pensioni. La vignetta che accompagnava il manifesto di convocazione forniva un’immagine folgorante della situazione che si è venuta a creare nel nostro paese con il varo di questa legge: tre lavoratori anziani, curvi e stremati, sono impegnati in un lavoro di scavo stradale mentre tre giovani “sfaccendati”, cioè disoccupati, li stanno a guardare. La vulgata mainstream che cerca di contrapporre i giovani agli anziani, sostiene che i “privilegi” degli uni sono la causa delle privazioni degli altri. La realtà è molto differente: imponendo agli anziani di rimanere al lavoro, quando ce l’hanno, fino allo sfinimento, e anche oltre, si chiude l’accesso al lavoro ai giovani, costringendoli a all’inattività, alla dipendenza economica, alla miseria e alla depressione; il tutto a beneficio di chi incassa i proventi dei “risparmi” realizzati con il taglio alle pensioni: che è l’alta finanza, quella che detiene gran parte del debito pubblico dell’Italia e incassa ogni anno miliardi di interessi.
Il Presidente di Confindustria ha detto che la situazione italiana è paragonabile a quella di un paese uscito dalla guerra (arriva in ritardo, c’è chi queste cose le prevede e dice da anni: ma dov’era allora Squinzi? A sostenere, insieme a Confindustria, i governi che ci hanno portato a questo disastro). Ma la situazione è anche peggiore di ciò che sostiene Squinzi, che misura tutto in termini di produzione, fatturati, profitti, PIL. Perché l’Italia è ormai, più di ogni altro paese (in Germania si è appena decisa una riduzione dell’età pensionabile) la terra dove lavorano – quando lavorano – solo più i “vecchi”; con una produttività (quella tanto cara ai soloni di Confindustria) che nella maggior parte delle mansioni diminuisce verticalmente con l’età; mentre i giovani – sia quelli che hanno studiato che quelli che non hanno potuto farlo – stanno a casa a spese dei genitori o dei nonni pensionati (fin che restano in vita); oppure vanno all’estero per cercare di sopravvivere.
Gli interventi che si sono succeduti dal palco dell’assemblea forniscono un quadro drammatico di questo disastro: come si fa a fare la maestra d’asilo – si chiedevano in molte – o l’insegnante fino a 67 anni? E con classi sempre più numerose, senza sostegno per i portatori di handicap e i figli dei migranti, mentre – per esempio – nelle scuole materne di Torino non c’è più una sola educatrice al di sotto dei 45 anni? Parla una maestra di scuola materna che dovrà restare al lavoro ancora per molti anni, mentre sua figlia, che ha lo stesso diploma, resta a casa perché non ci sono più assunzioni. E gli ospedali – stesso problema – si riempiranno di infermieri e infermiere ultrasessantenni, magari con le stampelle o il pannolone – il loro – da cambiare? E che senso ha imporre a un impiegato ultrasessantenne di arrabattarsi su programmi informatici che cambiano continuamente e che un giovane di 20 anni imparerebbe a usare in un batter d’occhio, senza nemmeno frequentare un corso? Questo e altro nei lavori che sono a contatto con il pubblico, e che tutti possiamo vedere. Poi ci sono i lavori che si svolgono dietro i cancelli di una fabbrica o di un cantiere (dove è vietato entrare ai non addetti ai lavori), che sono per lo più molto più pesanti, non solo in termini di stress, ma di vera e propria fatica fisica, oltre che di pericoli. Un anziano o un’anziana (e la legge Fornero colpisce a morte soprattutto le donne) non ce la possono fare: vedevano a stento e con molta apprensione, il traguardo dei 60 e dei 63 anni (e chi ha cominciato a lavorare da ragazzo o da ragazza, quello dei 35 e dei 40 anni di anzianità); e adesso se lo vedono spostato in avanti come in nessun altro paese in Europa o nel mondo…E li assale la disperazione. Perché dietro i “risparmi” realizzati sulla pelle di chi deve andare in pensione di sono vite ed esistenze distrutte.
E che non ce la si possa proprio fare è confermato da chi ha preso la parola per conto dei disoccupati over 50. “Non ci prende più nessuno, anche se sappiamo fare bene il nostro mestiere: sei troppo vecchio ci dicono, e questo lavoro non lo puoi più fare”. Ma non prendono nemmeno i giovani, perché devono tenersi gli anziani che hanno in organico fino all’età di Matusalemme; o, più probabilmente, inventarsi una crisi o una ristrutturazione aziendale, o una delocalizzazione per sbarazzarsene. Per i giovani, poi – che sono stati al centro di tutti i discorsi – il futuro proprio non c’è. Disoccupati o precari, alla pensione non ci arriveranno mai; o, quando ci arriveranno, sarà al livello di quella sociale, al di sotto della sopravvivenza, nonostante tutti i contributi che avranno dovuto sborsare nei periodi in cui avranno lavorato. E una pensione complementare, un’assicurazione sulla vita (il “secondo pilastro” del sistema pensionistico “ammodernato”), chi se la può permettere?
Per di più, il tasso di conversione rischia di ridurre le pensioni al 50 per cento del salario, o anche meno, perché è legato al calcolo della speranza di vita. Ma la speranza di vita, ricorda un operaio, non è la stessa per uno che ha cominciato a lavorare a 14 o a 16 anni in un cantiere e ha continuato per tutta la vita a lavorare con fatica e per uno che ha vissuto in una casa borghese, ha sempre fatto lavori di ufficio e non si è mai negato una vacanza, un’alimentazione sana o una cura medica!
Molti mettono sotto accusa non solo la legge Fornero, ma tutte le riforme pensionistiche successive alla legge Dini (1995). Vogliono ritornare alla legge del 1969 e al sistema retributivo. Perché i fondi dell’Inps non sono dello Stato, che li tratta come se fossero cosa sua, usando i contributi dei precari (la gestione speciale) e dei degli operai (la gestione ordinaria) per tappare i buchi delle casse in passivo (compresa quella dei dirigenti d’azienda, che hanno sfruttato gli operai quando erano al comando delle imprese, e li sfruttano anche adesso che sono in pensione); o per coprire i contributi dei dipendenti pubblici che lo Stato non ha mai versato e che ora, con l’unificazione con l’Inpdap rischiano di trascinare nel baratro i conti dell’Inps, nonostante che di fatto siano in forte attivo. “I fondi dell’Inps sono dei lavoratori che hanno versato i contributi” dicono in tanti, e “vogliamo tornare a gestirli noi, come si faceva con le casse di mutuo soccorso”.
Dall’assemblea del 20 dicembre partirà dunque una campagna per l’abrogazione della legge Fornero che si articolerà in ogni città e in ogni azienda o ente e che sarà coordinata da un gruppo volontario dei Rsu presenti. L’obiettivo immediato è portare i sindacati confederali e di base e i partiti a fare proprio questo obiettivo (“E’ una battaglia che abbiamo perso perché non l’abbiamo mai combattuta; non ce l’hanno mai fatta combattere. Ma adesso le cose devono cambiare!”). Molti dei presenti si accingono a dare battaglia al congresso della CGIL (la maggioranza dei presenti è iscritta a questo sindacato): “Perché, se continuano su questa strada, anche i sindacati rischiano di fare la fine dei partiti”. Ma la campagna verrà condotta comunque, indipendentemente dall’esito di questa battaglia congressuale, in forma autonoma (cioè, autoconvocata). Così questa iniziativa si va ad aggiungere ad altre battaglie di lavoratori, che si sono già sviluppate al di fuori della gestione sindacale o contro di essa: come lo sciopero dei lavoratori dell’Amt di Genova o dell’Ataf di Firenze contro la privatizzazione dell’azienda; o la rivolta dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti di Taranto o, nonostante tutte le loro ambiguità, i blocchi stradali del 9 dicembre, che in molte città hanno visto una forte partecipazione di lavoratori, disoccupati e precari. Il paese è alle corde, ma i lavoratori stanno riprendendo la parola. E non solo a parole. Prima o poi Governo e partiti, Confindustria e sindacati, dovranno farci.