Intervento di Guido Viale al seminario Crisi, Grecia, Italia, Europa di Rifondazione comunista e GUENGL, 31.1.2015
Facciamo attenzione a non ridurre il nostro sostegno alla Grecia a un confronto tra politiche economiche alternative: spesa pubblica contro austerity. O peggio, euro sì, euro no. È in realtà uno scontro tra le condizioni di possibilità di una politica sociale per le persone e una politica che mette al centro di tutto il denaro. Il nostro sostegno alla Grecia deve riprendere e tradurre nelle condizioni del nostro paese soprattutto i termini di questo scontro.
Accanto alla scarsa attenzione del nuovo Governo greco, già da molti rilevata, per le questioni di genere, altrettanto potremmo dire per la questione ambientale, nonostante che essa fosse in rilievo nel programma in dieci punti di Tsipras. Su entrambi questi fronti non spetta a noi dare dei suggerimenti a Syriza, ma non possiamo nemmeno “soprassedere”. Dobbiamo tradurre questi rilievi nella capacità di esplicitare e promuovere delle politiche, valide per tutta l’Europa, che mettano al centro la questione di genere e quella ambientale, in forme capaci di offrire anche al governo greco uno sbocco positivo a questa impasse.
Ma abbiamo di fronte un’altra questione grande come una casa, che rischiamo di ignorare, ma che potrebbe travolgerci tutti. Dobbiamo ridisegnare la nostra mappa mentale di che cosa è l’Europa, della sua struttura sociale e dei suoi confini. Come ho scritto altrove, l’Europa non finisce ai suoi confini politici o amministrativi. Intorno a questi confini c’è ormai da tempo uno stato permanente di belligeranza armata dai fronti mobili: in Israele, Iraq, Libia, Siria, Turchia, Ucraina; per non parlare di paesi più lontani, ma quasi altrettanto influenti sul contesto europeo come Afghanistan, Pakistan, Eritrea, Somalia, Niger e Nigeria. Queste situazioni ci riguardano direttamente per tre motivi:
Primo, perché come alleati degli USA e membri della NATO, abbiamo – intendo dire, i governi italiani hanno – contribuito a scatenare questi conflitti e non abbiamo una politica per riricondurli a un contesto di convivenza.
Secondo, perché quei fronti di guerra sempre più mobili e incontrollabili tendono e tenderanno sempre più a riprodursi nei territori europei in due forme: innanzitutto scavando un solco sempre più profondo tra nativi europei e comunità di immigrati, anche di seconda e terza generazione. Ma anche con il moltiplicarsi di iniziative terroristiche: iniziative non di importazione, ma che maturano nel seno stesso della radicalizzazione degli animi e delle scelte in comunità solidamente presenti nel territorio europeo.
Terzo, perché quello stato di belligeranza endemica sta creando un esercito non più di migranti in cerca di lavoro e di una vita migliore, ma di milioni di profughi (profughi non solo di guerra, ma anche economici e ambientali); un esercito che preme e premerà sempre più sui confini dell’Europa e che vedono le autorità europee impegnate a cercare di arginare con mezzi sempre più violenti e crudeli.
Così, al di qua e al di là dei confini formali dell’Unione Europea sono state attivate politiche di confinamento, di deportazione, di sfruttamento, di persecuzione sistematica di minoranze, come i Rom, di displaced person in cerca di salvezza e di asilo, di lavoratori in condizioni di schiavitù reclutati tra migranti regolari e non. Una situazione che sta trasformando radicalmente i connotati delle nostre società. Siamo scivolati senza quasi accorgercene dentro un assetto sociale fondato su molti apartheid (che non sono quelli renziani tra “lavoro sicuro” e lavoro precario, bensì tra chi gode ancora di alcuni diritti di cittadinanza, o pensa di avere ancora il diritto di rivendicarli (il diritto di avere diritti, di cui parla Rodotà) e chi ne viene escluso per sempre e per principio, per legge o in via di fatto. Questo apartheid alimenta a sua volta la paura di precipitare in quello stato di persone senza diritti anche tra chi appartiene al primo gruppo e offre grandi occasioni di proselitismo agli imprenditori della paura, senza che i loro veri o presunti avversari, cioè i partiti e la cultura di sinistra, abbiano messo a punto strumenti, o anche solo buone intenzioni, per contrastare quest’ondata reazionaria. Anzi, spesso sono loro ad anticiparla, anche se difficilmente ne ricavano i frutti.
Viste le dimensioni che sta assumendo questa deriva, dovrebbe essere chiaro che non riuscire a fermarla, e non adoperarsi e attrezzarsi per farlo, rischia di far precipitare l’Europa di nuovo nell’abisso. Lo dico in piena consapevolezza perché seguo da vicino il lavoro di Barbara Spinelli e dei suoi assistenti in Italia e nel Parlamento europeo, dove Barbara ha concentrato i suoi sforzi su questo tema e ne ha ricavato anche informazioni e collegamenti, relativi a tutto il contesto europeo, che cominciano a delineare un quadro complessivo che fa rabbrividire. Di fronte a questa situazione la contesa sulle percentuali di deficit di bilancio, e persino quella sull’euro, può legittimamente apparire non solo una disputa inadeguata alla dimensione dei problemi da affrontare, ma addirittura un modo di nasconderli.
Ma rinunciare a mettere al centro delle nostre politiche questa revisione della nostra immagine dell’Europa ci induce a trascurare anche un’occasione storica. Occasione che è data innanzitutto dai legami, sia materiali che culturali e linguistici, ma anche solo immaginari e sempre di più religiosi, che essi mantengono o rinnovano con i loro paesi di origine. Politiche di accoglienza e di sostegno per questo esercito di sbandati, potrebbero avere una enorme importanza nel promuovere le basi di un’alternativa di governo e di pace nei loro paesi da cui provengono. E anche, ovviamente, per la creazione di una grande comunità di popoli intorno al Mediterraneo.
Dobbiamo capire e valorizzare meglio le opportunità offerte da questo contesto, da questa nuova e diversa visione dell’Europa. Abbiamo lasciato cadere nel caos gli spunti offerti dalle primavere arabe (che pure hanno fatto da innesco per fenomeni per noi molto importanti come il movimento M15 in Spagna e Occupy Wall street e Occupy the world (e poi anche per l’ascesa di Syriza e di Podemos), per non aver saputo prospettare per tempo, con la nostra iniziativa politica, un’alternativa di governo anche per loro di fronte al fallimento delle politiche liberiste e autoritarie contro cui quelle primavere si erano ribellate.
Oggi un nuovo importantissimo spunto di riflessione, ma anche di azione, ci viene offerto dalla resistenza contro lo Stato islamico sostenuta dalla popolazione di Kobane e del Rojava in Siria: si tratta di una comunità che si autogoverna in modo federalista, democratico, egualitario. Che resiste in armi, nonostante la disparità delle forze, all’offensiva jihadista. Ma soprattutto che è capace di prospettare una piena parità di genere nel cuore di un conflitto armato che ha proprio nella perpetuazione e nella estremizzazione del dominio dell’uomo sulla donna la sua posta principale. È alla conquista di questa parità di genere, e non ai bombardamenti, anche quando fossero necessari – ma vengono effettuati in un contesto degradato in cui rischiano di non finire mai – che dobbiamo guardare se vogliamo trovare l’arma vincente capace di scardinare alla radice le derive integraliste che attraversano tanto il mondo islamico che quello di cultura “occidentale”. Derive di cui si alimentano i conflitti sempre più acuti che si sviluppano sia ai confini che nel cuore dell’Europa.
Credo che la rivoluzione femminista abbia dato a tutti noi molti spunti per capire l’importanza anche politica della lotta contro il patriarcato. Ma quello che dobbiamo fare ora è tradurre quegli spunti in strumenti e in forme di lotta radicalmente nuovi. È questo, anche, il contributo che possiamo dare, non con suggerimenti, ma con la pratica degli obiettivi, a chi oggi è impegnato – come e più di noi, come i compagni di Syriza – sul fronte della lotta contro l’austerità e la schiavitù del debito. Lavoriamo perché questo sacrosanto fronte di lotta contro l’austerity, che ha oggi in Grecia il suo caposaldo, non venga travolto da insorgenze sociali ancora più drammatiche e catastrofiche per la democrazia e per la convivenza.