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Fare default non vuol dire lasciare l’euro

Inserito da on Marzo 31, 2014 – 9:05 amUn commento

Dal 2009, anno in cui il premier Papandreou ha dovuto dare conto dello stato comatoso delle finanze della Grecia, che i governi precedenti avevano “nascosto” – ma che non era certo un segreto per chi l’aveva fatta indebitare fino al collo per vendergli le sue merci, le sue armi, i suoi mastodontici impianti per le olimpiadi, incassando poi anche gli interessi sui crediti concessi: Francia e Germania in testa – quel paese ha ristrutturato due volte il suo debito.

Cioè ha fatto due volte default, con il consenso – meglio sarebbe dire, su imposizione – della Troika e soprattutto del governo tedesco. Quei debiti sono anche il frutto della corruzione dei governi greci, come da noi sono il frutto di vent’anni di malgoverno italiano; ma in entrambi i casi quei governi sono stati tenuti in piedi proprio dagli Stati forti dell’Unione per continuare a fare i loro affari; e vengono tenuti in piedi anche adesso per spennare i cittadini dei paesi vessati dal malgoverno. Sono loro, non noi, a essere vissuti “al di sopra delle proprie possibilità”, come ci viene invece rinfacciato tutti i giorni, per attribuirci la causa di una crisi che solo loro hanno provocato.

In ogni caso, la ristrutturazione del debito greco era insufficiente e tardiva: qualche anno prima avrebbe potuto sortire un effetto; fatto in ritardo, e solo per rinviare un inevitabile crack, non ha certo risanato le finanze della Grecia, il cui debito ha continuato ad aumentare mentre il PIL precipitava. Però, in cambio di quel taglio, è stata imposta alla Grecia la svendita di tutte le imprese pubbliche e di tutti i beni comuni del paese (una cosa che i sindaci italiani, strangolati dal patto di stabilità interno, conoscono bene); senza con questo portare il minimo contributo alla riduzione del debito e della montagna di interessi che gravano su di esso.

In compenso il tessuto produttivo della Grecia è stato azzerato, migliaia di dipendenti pubblici e di lavoratori del settore privato sono stati licenziati, la disoccupazione ha raggiunto livelli mai visti, il salario di quelli rimasti e le pensioni sono state dimezzati, il servizio sanitario nazionale è stato ridotto all’osso, le medicine sono sparite, la mortalità infantile è raddoppiata, Università e televisione pubblica sono state chiuse (restano aperte solo quelle private), milioni di inquilini sono stati sfrattati, gran parte della popolazione è alla fame e si nutre con i doni o le svendite degli agricoltori che portano in città i loro prodotti invenduti, oppure frugando nei cassonetti della spazzatura e così via.Però i ricchi non sono mai stati così bene: non pagano le tasse e vivono con i profitti dei capitali esportati.

Mentre il governo greco era impegnato in questo sfracello, Syriza, nata come aggregazione di ben 13 organizzazioni della sinistra greca, assai litigiose tra loro, è stata l’unica forza politica a opporsi ai diktat della Troika e a promuovere, con una politica unitaria e “di movimento”, le lotte e iniziative con cui la popolazione e i lavoratori cercano di fare fronte alle conseguenze di una politica ormai classificata come vero e proprio “crimine contro l’umanità”.

Così, in tre anni, Syriza è passata dal 4 al 27 per cento e ora è il primo partito greco. Il suo segretario, Alexis Tsipras, è il candidato alla Presidenza della Commissione europea di uno schieramento che include il Partito europeo della sinistra (che ha consistenti rappresentanze e importanti collegamenti di movimento in Grecia, Spagna, Portogallo, Francia e Germania) e la lista italiana L’altra Europa. Questa coalizione, con un progetto di radicale cambiamento dell’ordinamento e delle politiche europee, fuori dalle logiche identitarie della sinistra tradizionale, potrebbe scompaginare molti progetti delle forze impegnate in una riedizione a livello europeo delle “larghe intese” o della Grosse Koalition: cioè responsabili delle politiche portate avanti in questi anni.

Che conclusioni possiamo trarre da tutto ciò?

Fare default non vuol dire lasciare l’euro; alla Grecia sono state imposte ben due ristrutturazioni del debito, ma è stato accuratamente evitata “l’uscita dall’euro” che avrebbe, non per la Grecia, ma per tutta l’Europa, conseguenze catastrofiche. Una ristrutturazione ben più efficace e sostanziale dei debiti può quindi essere pretesa da una coalizione degli Stati danneggiati dalle politiche in atto, perché lasciare le cose come stanno finirebbe per travolgere tutti. Ma una alternativa del genere deve essere esplicitata chiaramente. Per questo una radicale ristrutturazione di tutti i debiti pubblici insostenibili – come prevede il più importante dei 10 punti contenuti nella dichiarazione programmatica di Alexis Tsipras – è un obiettivo più che ragionevole.

Nell’attuale congiuntura, che non sta affatto volgendo al bello, per lo meno nella misura necessaria a “rilanciare la crescita” in Europa – come raccontano, senza alcun fondamento scientifico, governi e fautori delle politiche in atto – i debiti di almeno la metà dei paesi membri dell’Unione sono insostenibili, e la svendita del patrimonio pubblico – vero obiettivo dell'”assalto alla diligenza” promosso dalla finanza internazionale con l’attuale gestione della crisi – non allevierebbe di un centesimo il peso congiunto di debito e interessi. Per esempio, gli interessi che il governo italiano paga sul debito pubblico ammontano a quasi 100 miliardi all’anno e la restituzione della quota di debito imposta dal Fiscal compact aggiungerebbe a questa cifra altri 50 miliardi all’anno. Di contro, la svendita di tutto quello che il ministro Padoan intende mettere all’incanto con la scusa di alleggerire il debito pubblico non coprirebbe che la metà di questa cifra, e per un solo anno. Dopodiché interessi e ratei resterebbero invariati, ma i beni pubblici sarebbero finiti in mano a speculatori, tangentisti e mafie; con la benedizione dell’UE e della Merkel.

Un inventario dei danni inferti al tessuto produttivo, all’occupazione, all’ambiente, alla salute, agli istituti del welfare, alla cultura e alla convivenza civile dalle politiche degli ultimi governi italiani non è ancora stato fatto, ma chi vive giorno per giorno le conseguenze di quelle scelte sa che ci stiamo avvicinando a passi da gigante alle condizioni della Grecia. Senza una radicale riconversione ambientale, ridurre drasticamente il debito con la sua “mutualizzazione”, o con un “concordato preventivo” con l’Unione europea è sì indispensabile, ma non basta a rilanciare l’economia. Viceversa la soluzione dell'”uscita dall’euro”, posto che sia praticabile, lungi dal rilanciare le esportazioni di ogni paese con la svalutazione, non farebbe che produrre inflazione, aumentare l’indebitamento e scatenare un competizione di tutti contro tutti in una corsa al ribasso, in un contesto dove un singolo paese non ha più alcuna possibilità di confrontarsi con i giganti che dominano la globalizzazione.

Promuoverebbe però una frantumazione dell’area europea che non si fermerebbe certo ai singoli Stati e finirebbe per spezzettare ogni nazione, come già sta facendo, in un pulviscolo di rivendicazioni regionalistiche; non c’è alcuna possibilità di salvaguardare ciò che resta del patrimonio impiantistico, dei know-how, dell’abitudine al lavoro in comune, dell’occupazione e delle possibilità di garantire a tutti un reddito decente, se ci si continua ad accanirsi in una competizione senza sbocco sui mercati internazionali, sperando di ricavare di là le risorse per risollevare le sorti del paese (la via senza senso additata alla Grecia, ma anche all’Italia e a tutti i paesi in crisi).

Una radicale riconversione produttiva delle produzioni e dei consumi in direzione della sostenibilità ambientale e del rafforzamento del tessuto sociale di ogni singolo territorio è l’unica via per fermare il declino economico e il degrado civile del paese. Per questo le autonomie locali, la democrazia partecipata di prossimità, il governo condiviso dei servizi pubblici e dei beni comuni sono strumenti indispensabili del riscatto e del potenziamento della democrazia in tutto il continente europeo; la politica e l’organizzazione dell’Unione europea devono cambiare alle radici, recuperando lo spirito originario dei suoi fondatori che volevano un’Europa democratica, federalista (fondata sulle autonomie locali e non sugli Stati), pacifica e inclusiva.

Anche se sotto elezioni tutti i partiti che hanno promosso e sostenuto l’austerity ora la criticano (per poi ripromuoverla il giorno dopo), in realtà l’unico schieramento che propone una rifondazione radicale dell’Unione, che intende sostenerla con il più ampio sviluppo del conflitto sociale, e che può unire le forze per ridisegnare schieramenti e orientamenti anche all’interno del Parlamento europeo, è la coalizione delle forze raccolte intorno alla candidatura di Alexis Tsipras: l’Europa si rifonda non lasciando indietro, uno dopo l’altro, i paesi più colpiti dalla crisi, ma cercando di risollevarsi tutti insieme.

Facendosi forza di un sacrosanto rigetto delle politiche adottate finora dall’UE, un’ondata nera sta avanzando in Europa. Per ora basa in gran parte il suo successo sulla tesi semplicistica secondo cui l’euro, e non le politiche dell’Unione che ne governano il funzionamento, sarebbe la causa del malessere che colpisce un numero crescente dei suoi cittadini. Ma in realtà, dietro all’invocazione del ritorno a un passato senza moneta comune che non può più tornare (e che in alcuni casi coinvolge anche alcune forze della sinistra tradizionale) le componenti più radicali di questo schieramento fanno appello a uno spirito tribale che vede la causa di tutti i mali nello straniero, nel migrante, “nel diverso”, nell'”arabo” presentato ovunque come un potenziale terrorista, e non nell’alta finanza che spadroneggia sulle nostre vite (se non per identificarla, anche qui, con l”ebreo”, un cliché di diretta matrice nazista).

Apparirà chiaro ben presto che le forze al governo della maggioranza dei paesi europei, sorde al dolore che stanno diffondendo a piene mani in tutto il continente, non sono assolutamente attrezzate per contrastare questa marea reazionaria. Soltanto una forza radicale, democratica e inclusiva come quella che si raccoglie intorno ad Alexis Tsipras è in grado di ricomporre strumenti e materiali per erigere una diga contro questa ondata e far invertire rotta a tutta la flottiglia Europea.