Dopo il collasso
E’ da tempo che diversi economisti non asserviti al sistema sostengono che le politiche di austerità adottate prima dal governo Berlusconi e poi da Monti avrebbero sortito gli stessi effetti di quelle imposte dalla cosiddetta Trojka alla Grecia. Ed è da più di un anno che Monti si vanta invece di aver evitato al nostro paese lo stesso destino grazie alle misure del suo governo, che però sono in gran parte le stesse imposte alla Grecia. Chi ha ragione?
La disoccupazione, la cassa integrazione e il precariato in continua crescita, i redditi da lavoro e i consumi in continua contrazione, le aziende che chiudono una dopo l’altra, il loro know-how che si disperde o emigra all’estero, i loro mercati che si dileguano, i principali gruppi industriali in disarmo, il welfare che si contrae sia a livello statale che municipale, la miseria che avanza, la scuola che avvizzisce, la ricerca che emigra, l’ambiente che si degrada, la burocrazia che si avvita su se stessa, l’ingorgo legislativo, la politica in stallo rendono evidente che l’Italia ha ormai toccato un punto di non ritorno.
Forse che, se domani venissero varate misure economiche di sostegno, come quelle invocate dagli economisti non di regime – una spesa pubblica più espansiva, un credito più abbondante, un ribasso dei tassi, un nuovo programma di lavori pubblici, un sostegno alla ricerca (tutte cose peraltro incompatibili con gli accordi imposti da UE e BCE e sottoscritti dal governo Monti e da tutti i partiti che l’hanno sostenuto), allora la macchina produttiva riprenderebbe a funzionare “come prima”? Cioè, le fabbriche e i cantieri chiusi riaprirebbero, gli operai licenziati tornerebbero in azienda, i precari verrebbero stabilizzati, i disoccupati assunti, la scuola ricomincerebbe a funzionare, l’ambiente si risanerebbe, la burocrazia si sbloccherebbe e la politica rinsavirebbe? No, quello che si è dissolto è perso per sempre. Per capire le dimensioni del disastro basta pensare a questo: il 38 per cento di giovani disoccupati (per non parlare dei precari e degli scoraggiati) troverà lavoro tra qualche anno? No. Allora, e già in parte ora, saranno un 38 per cento di disoccupati adulti (e magari, per questo, anche senza casa e famiglia); e tra qualche anno ancora, non il 38 per cento, ma molto di più, di anziani senza lavoro, senza pensione e in miseria assoluta. Un intero sistema economico, e con esso un intero modello produttivo, è giunto al collasso, e in parte vi è stato portato dalle sue “classi dirigenti”. Sia quella politica che quelle del mondo finanziario e imprenditoriale, che della classe politica sono state i padrini e i padroni; per non parlare della classe accademica… Per risollevare il paese ci vuole non solo il ripudio dei vincoli finanziari imposti dalla BCE, e con essi di buona parte del debito pubblico – sia di quello ufficiale che di quello sommerso, che emergerà nei prossimi anni – ma anche e soprattutto un nuovo modello produttivo, interamente impegnato nella conversione ecologica: l’unica capace di futuro, di creare lavoro vero, cioè utile e non distruttivo – e con esso redditi e condizioni di vita meno diseguali – e di recuperare quanto resta del know-how, delle professionalità e del patrimonio impiantistico dell’apparato produttivo. Ma l’attuale classe dirigente, sia politica che imprenditoriale, non è assolutamente in grado di – e meno che mai interessata a – guidare un processo del genere. E una nuova classe dirigente in grado di farlo non è in vista. Quella attuale, ben rappresentata dai dieci “saggi” scelti da Napolitano per perpetuare lo stallo politico in atto – e per continuare a imporre Monti, ovvero la politica di Monti – dimostra che a raschiare il fondo del barile non ne esce che melma (c’è tra i “saggi” persino uno che sostiene che Rubi è la nipote di Mubarak e il principe degli statistici che non è capace di calcolare l’allineamento degli stipendi dei parlamentari italiani a quelli europei: abbastanza per vergognarsi di far parte della comitiva, per chi non è della stessa stoffa; e per essere contenti che tra loro non ci sia neanche una donna). Ma non lascia molte speranze neanche la nuova classe dirigente, quella giunta in Parlamento con il movimento cinque stelle e con i “giovani turchi” del PD (ma che nome è? Non si tratta forse dei responsabili del genocidio di un milione di armeni?). Innanzitutto, perché sottoposti ad alcuni test di elementare competenza, molti di quei parlamentari si sono dimostrati decisamente ignoranti. Poco male, direte voi; impareranno. Ma è l’incapacità o l’impossibilità di esprimere idee proprie quello che preoccupa. I “giovani” del PD non esprimono alcun disegno alternativo a quello con cui Monti ci ha accompagnato al collasso: finiranno in bocca a Renzi. E meno che mai lo esprimono i parlamentari a cinque stelle: inchiodati al blog di Grillo come a una croce; senza un retroterra organizzato con cui confrontarsi (quei movimenti, comitati, Gas e progetti civici di cui hanno ripreso molti obiettivi, ma non la pratica politica, né l’autonomia costruita attraverso la condivisione); e senza il coraggio o la capacità di declinare quei loro 20 punti alla luce di un contesto. Che non è solo né principalmente la vicenda politico-parlamentare; ma è soprattutto l’evolversi, anzi l’involversi, del paese; che certo non si riprenderà con un referendum sull’euro.
Ma il segnale più importante, anche se non il più vistoso, della “evaporazione” di una classe dirigente in grado di affrontare nei suoi termini reali le dimensioni della crisi è l’eclisse dei “nuovi sindaci”: quelli di sinistra, quelli a cinque stelle e quelli nati per “scassare tutto”. Ingabbiati tra expò, debiti pregressi, patto di stabilità e tagli alla spesa pubblica (che per l’80 per cento gravano su Comuni e Regioni, e solo per il 20 per cento sulle strutture centrali dello Stato), hanno lasciato per strada i movimenti, i comitati, i centri sociali e le iniziative civiche che li avevano portati al governo delle loro città e oggi si arrabattano senza programmi e senza interlocutori con le miserie di una politica di bilancio che azzera la loro agibilità e li induce a pareggiare i conti privatizzando quel che resta dei beni comuni. Così resteranno in mutande; e noi con loro. Non basta l’esempio di ABC acqua bene comune di Napoli per invertire la rotta. Manca il progetto di un uso dei servizi pubblici locali come leva della conversione ecologica. Che è innanzitutto una politica territoriale, fatta in loco; ma che per realizzarsi ha bisogno di una cornice nazionale ed europea. Così svendono servizi e beni comuni per sanare i bilanci invece di farne un punto di forza per negoziare, insieme ai movimenti, con il governo.
E’ evidente allora che le forze necessarie per riorientare le politiche economiche e le istituzioni verso la sostenibilità e la giustizia vanno cercate altrove. Le basi ci sono. Sono quelle delle miriadi di esperienza di lotta (che sono sempre grandi scuole di formazione al pensare e agire in forme autonome e condivise), ma anche quelle delle mille e mille iniziative di carattere molecolare – dai Gas ai Des, dai centri sociali a molte imprese sociali (quelle vere), dalle tante iniziative culturali ed editoriali alle associazioni e ai comitati ambientalisti, civici e del volontariato sociale: tutte scuole di “altra economia” e di amministrazione democratica – senza contare le amministrazioni di molti comuni medi e piccoli che hanno accumulato esperienze di governo fondamentali. Certamente manca loro ancora in gran parte una visione condivisa dei processi economici nelle loro dimensioni globali – soprattutto quando è in gioco il destino di grandi e grandissimi complessi produttivi – e dei passaggi stretti che occorre superare per affrontarne di petto le relative problematiche. Ma è proprio questo il vuoto che oggi dobbiamo impegnarci a colmare per promuovere insieme, su contenuti concreti, una aggregazione delle forze in campo.
Niente come la situazione attuale rende allora evidente l’esigenza di riformulare in termini condivisi un programma radicale all’altezza dei nodi della crisi, che non è solo italiana, ma mediterranea, europea e planetaria (perché è innanzitutto crisi ambientale). Niente come l’impasse attraversata dai movimenti fa rimpiangere il soffocamento precoce (e ad opera di un “fuoco amico”. O no?) di un tentativo come cambiare si può; non tanto come proposta elettorale – i risultati forse non sarebbero stati gran che; ma sicuramente avrebbero rappresentato un rischio per Grillo e un mezzo per sviluppare una sana competizione con il movimento cinque stelle – quanto come punto di riferimento di quell’aggregazione dal basso, tra pari, di mille organismi dispersi: un progetto che non è più rinviabile. E niente, di fronte al collasso di un intero paese, e dopo il fallimento di quello che poteva essere un buon inizio, ci fa sentire ora tanto fragili e impreparati quanto le chiusure e le rivendicazioni identitarie (e magari altri “fuochi amici”) che continuano a intralciare quel processo.
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