Un raccolta di articoli sul tema della riconversione a proposito della Fiat di Termini Imerese, Pomigliano, Mirafiori (luglio 2010)
TERMINI IMERESE
Un’”anticipazione” di Repubblica del 21 aprile scorso attribuiva alla Fiat un ambizioso piano industriale Fiat-Chrysler da 5,5 milioni di vetture all’anno per il 2015 (2,7 milioni Fiat e 2,8 milioni Chrysler). Un piano molto vicino, anche senza Opel, ai 6 milioni di auto all’anno che mesi fa Marchionne aveva fissato come obiettivo irrinunciabile per non scomparire in un mercato dell’auto sempre più competitivo.
Questa anticipazione non ha trovato né conferme né smentite nella conferenza stampa che oggi Marchionne ha tenuto di fronte agli analisti finanziari, dove ha invece dovuto ammettere che quest’anno le vendite di auto caleranno di almeno il 30 per cento in Italia e del 15 per cento in Europa. Come sia possibile raggiungere gli obiettivi anticipati da Repubblica in un mercato il cui già oggi c’è dal 30 al 50 per cento di capacità produttiva in eccesso e che per l’anno in corso va incontro a un altro massiccio crollo delle vendite non è stato spiegato. Di piani industriali fantasiosi la Fiat ne ha già prodotti diversi.
Nel quadro delle anticipazioni di Repubblica, l’ipotetica distribuzione della produzione tra i diversi stabilimenti italiani della Fiat nel 2015 dovrebbe essere il seguente: 127mila vetture a Mirafiori (significa in pratica la chiusura del più grande stabilimento industriale italiano); 255mila a Cassino; 250mila a Pomigliano; 370mila a Melfi. L’unica cosa certa in questa sarabanda di cifre è la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese.
Che fare? Insistere perché la Fiat continui a produrvi automobili è verosimilmente inutile. Si rischia di trascinare gli operai a uno scontro frontale contro un muro. Pensare che qualcun altro – magari i cinesi; o qualche avventuriero attirato da possibili sussidi statali o regionali – venga a produrre auto in uno stabilimento che ha un sovracosto di produzione di 1000 euro per vettura è altrettanto improbabile.
Potrebbe funzionare come testa di ponte per una penetrazione cinese nei mercati europei, ma in questo caso, addio indotto. Oppure potrebbe essere una delle tante truffe con i soldi di tutti, destinata a procrastinare di un anno o due la messa sul lastrico dell’intero comparto: fabbrica e indotto. Il mercato europeo dell’auto non lascia sperare altro. Lo stesso vale probabilmente per autobus, camion e suv.
Non resta che riconvertire. A produzioni che promettano comunque di potersi espandere nei prossimi anni – quale che sia l’andamento congiunturale – e per le quali la Sicilia potrebbe anche fare da testa di ponte per una penetrazione in tutto il bacino del Mediterraneo. I settori la cui candidatura è più sensata sono efficienza energetica e fonti rinnovabili.
Oltre trent’anni fa la Fiat aveva messo a punto il Totem: un impianto mobile di microcogenerazione ad alta efficienza, funzionante sia a benzina che a gas, basato sul motore della 127. Poi ha lasciato cadere il progetto. Lo ha ripreso l’anno scorso la Volkswagen, che con il motore della golf intende produrre almeno 100mila impianti del genere da installare in condomini, piccole aziende, uffici: serve a produrre elettricità, riscaldamento, raffreddamento, congelamento, sterilizzazione con un’efficienza che si avvicina al 100 per cento. Perché in Italia no?
In una dimensione maggiore, tutta la tecnologia della micro cogenerazione (fino a 2-3 MW di potenza elettrica), in cui oggi domina l’industria tedesca, nasce dallo sviluppo dei motori marini: fino a trent’anni fa la Fiat aveva degli stabilimenti per la loro produzione (la Grandi Motori) che ha poi abbandonato. Riprenderla potrebbe essere più complicato, ma non irrealistico.
Termini è comunque una fabbrica metalmeccanica e i rotori delle pale eoliche rientrano perfettamente in questa casistica e possono valorizzare la professionalità di molti degli addetti alla produzione della Y10. Diversamente ci si può impegnare nella produzione di massa di pannelli solari, termici e fotovoltaici. Oggi li importiamo quasi tutti. Cambierebbe completamente il genere, ma lo stabilimento è comunque lì, e l’indotto meccanico se ne potrebbe comunque avvantaggiare. D’altronde, a pochi chilometri di distanza (a Bagheria) si sta lavorando per costruire un “polo” delle energie rinnovabili. Niente a che fare tra una fabbrica che rischia la chiusura e un progetto ancora tutto da realizzare che assorbirà comunque ingenti risorse pubbliche? Per entrambi il mercato è alle porte: in Sicilia; nel resto d’Italia; in tutto il Mediterraneo.
Ovviamente non basta enunciare un obiettivo. Bisogna costruire il contesto: cioè il mercato, la tecnologia, i finanziamenti, il coinvolgimento dei lavoratori e del tessuto sociale, la formazione. Alla Fiat non si può certo – né è opportuno farlo – chiedere di impegnarsi nel nuovo business; se le fosse interessato, l’avrebbe già fatto. Ma di cedere lo stabilimento, gli impianti, quel che resta del suo know how, di fornire gratuitamente assistenza tecnica e formazione per la riconversione dei lavoratori, certamente sì.
Al nuovo progetto si deve garantire un mercato sicuro per gli anni del suo avviamento. Lo possono fare, sull’esempio di quello che hanno fatto i comuni toscani per sostenere la riconversione dell’Electrolux di Scandicci ai pannelli solari, centinaia di enti pubblici, sia in Sicilia che nel resto d’Italia, che ne trarrebbero indubbi benefici in termini di efficienza e di risparmio. Molti di questi interventi sono peraltro finanziabili in modalità Esco: un istituto finanziario anticipa in fondi e poi si rifà incorporando i frutti del risparmio in bolletta e gli eventuali incentivi. Per l’ente pubblico l’intervento è gratis, o quasi. Il resto dei fondi necessari alla riconversione può essere anticipato dalle banche con garanzia della Regione, che di denaro ne ha in abbondanza e per lo più lo spreca.
I lavoratori – non solo quelli della Fiat, ma anche quelli dell’indotto – i sindacati e la popolazione del territorio andrebbero coinvolti fin da subito, per renderli consapevole delle potenzialità, dei vantaggi e anche dei rischi del progetto; ma mettendoli di fronte al sicuro fallimento di altre soluzioni. E Termini Imerese potrebbe diventare un caso esemplare
Poi bisogna trovare un imprenditore. Ma l’esempio di Scandicci dimostra che quando ci sono gli impianti, il mercato, i lavoratori e i soldi, qualcuno disposto a “rischiare” – per così dire – si trova sempre. Il problema è solo quello di selezionarlo seriamente.
POMIGLIANO
Non c’è alternativa. Questa sentenza apodittica di Margaret Thatcher per la quale è stato creato anche un acronimo (TINA: there is no alternative) è la silloge del cosiddetto “pensiero unico” che nel corso dell’ultimo trentennio ha accompagnato le dottrine più o meno “scientifiche” da cui sono state orientate, o con cui sono state giustificate, le scelte di volta in volta dettate dai detentori del potere economico: prima liberismo (a parole, con grande dispendio di diagrammi e formule matematiche, ma senza mai rinunciare agli aiuti di stato e alle pratiche monopolistiche); poi dirigismo e capitalismo di stato (per salvare banche, assicurazione e giganti dell’industria dai piedi d’argilla dal precipizio della crisi); per passare ora a un vero e proprio saccheggio, usando come fossero bancomat salari, pensioni, servizi sociali e “beni comuni”, per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate.
Così la ricetta che non contempla alternative oggi è libertà dell’impresa; che va messa al di sopra di sicurezza, libertà e dignità, ovviamente dei lavoratori, inopportunamente tutelate dall’art. 41 della Costituzione italiana. A enunciarlo in forma programmatica è stato Berlusconi, subito ripreso dal ministro Tremonti e, a seguire, dall’autorità sulla concorrenza, che non ha mai mosso dito contro un monopolio. A tradurre in pratica quella ricetta attraverso un aut aut senza condizioni, subito salutato dagli applausi degli imprenditori giovani e meno giovani di S. Margherita Ligure, è stato l’amministratore delegato della Fiat, il Valletta redivivo del nuovo secolo: limitazione drastica (e anticostituzionale. Ma per questi signori la Costituzione va azzerata; e in fretta!) del diritto di sciopero e di quello di ammalarsi; una organizzazione del lavoro che sostituisce l’esattezza cronometrica del computer alla scienza approssimativa dei cronometristi (quelli che un tempo alla Fiat si chiamavano i “vaselina”, perché si nascondevano dietro le colonne per spiare gli operai e tagliargli subito i tempi se solo acceleravano un poco per ricavarsi una piccola pausa per respirare); una turnazione che azzera la vita familiare, subito sottoscritta da quei sindacalisti e ministri che due anni fa erano scesi in piazza per “difendere la famiglia”: la loro, o le loro, ovviamente.
E’ un ricatto; ma non c’è alternativa. Gli operai non lo possono rifiutare e non lo rifiuteranno, anche se la Fiom, giustamente, non lo sottoscrive. L’alternativa è il licenziamento dei cinquemila dell’Alfasud – il “Piano B” di Marchionne – e di altri diecimila lavoratori dell’indotto, in un territorio in cui l’unica vera alternativa al lavoro che non c’è è l’affiliazione alla camorra.
Per anni, a ripeterci “non c’è alternativa” sono stati banchieri centrali, politici di destra e sinistra, sindacalisti paragovernativi, professori universitari e soprattutto bancarottieri. Adesso, forse per la prima volta, a confermarlo con un referendum, sono chiamati i lavoratori stessi che di questo sopruso sono le vittime designate. Ecco la democrazia del pensiero unico: votate pure, tanto non c’è niente da scegliere.
Effettivamente, al piano Marchionne, non c’è alternativa. Nessuno ci ha pensato; neanche quando il piano non era ancora stato reso pubblico. Nessuno ha lavorato per prepararla, anche quando la crisi dell’auto l’aveva ormai resa impellente. Nessuno ha mai pensato che sarebbe stato necessario averne una, anche se era chiaro da anni che prima o poi – più prima che poi – la campana sarebbe suonata: non solo per Termini Imerese, ma anche per Pomigliano.
Ma a che cosa non c’è alternativa? Al “Piano A” di Marchionne. Un piano a cui solo se si è in malafede o dementi si può dar credito. Prevede che nel giro di quattro anni Fiat e Chrysler producano – e vendano – sei milioni di auto all’anno: 2,2 Chrysler, 3,8 Fiat, Alfa e Lancia: un raddoppio della produzione. In Italia, 1,4 milioni: più del doppio di oggi. La metà da esportare in Europa: in un mercato che già prima della crisi aveva un eccesso di capacità del 30-35 per cento; che dopo la sbornia degli incentivi alla rottamazione, è già crollato del 15 per cento (ma quello della Fiat del 30); e che si avvia verso un periodo di lunga e intensa deflazione.
Quello che Marchionne esige dagli operai, con il loro consenso, lo vuole subito. Ma quello che promette, al governo, ai sindacati, all’”opinione pubblica” e al paese, è invece subordinato alla “ripresa” del mercato, cioè alla condizione che in Europa tornino a vendersi sedici milioni di auto all’anno. Come dire: il Piano A non si farà mai.
Non è una novità. Negli ultimi dieci anni, per non risalire più indietro nel tempo, di piani industriali la Fiat ne ha già sfornati sette; ogni volta indicando il numero di modelli, di veicoli, l’entità degli investimenti e la riduzione di manodopera previsti. Tranne l’ultimo punto, che era la vera posta in palio, degli obiettivi indicati non ne ha realizzato, ma neanche perseguito, nemmeno uno. Ma è un andazzo generale: se i programmi di rilancio enunciati da tutte le case automobilistiche europee andassero in porto (non è solo la Fiat a voler crescere come un ranocchio per non scomparire) nel giro di un quinquennio si dovrebbero produrre e vendere in Europa 30 milioni di auto all’anno: il doppio delle vendite pre-crisi: una autentica follia.
Dunque il Piano A non è un piano e non si farà. L’alternativa in realtà c’è, ed è il “Piano B”. Se a chiudere non sarà Pomigliano, perché Marchionne riuscirà a farsi finanziare da banche e Governo (che agli “errori” delle banche può sempre porre rimedio: con il denaro dei contribuenti) i 700 milioni di investimenti ipotizzati e a far funzionare l’impianto – cosa tutt’altro che scontata – a cadere sarà qualche altro stabilimento italiano: Cassino o Mirafiori. O, più probabilmente, tutti e tre. La spiegazione è già pronta: il mercato europeo non “tirerà” come si era previsto
Hai voglia! Il mercato europeo dell’auto è in irreversibile contrazione; l’auto è un prodotto obsoleto che nei paesi ad alta intensità automobilistica non può che perdere colpi: “tirano”, per ora, solo i paesi emergenti – fino a che il disastro ambientale, peraltro imminente, non li farà recedere anch’essi – ma le vetture che si vendono là non sono certo quelle che si producono qui: né in Italia né in Polonia.
Anche se la cosa non inciderà sulle scelte dei prossimi mesi, è ora di dimostrare che non è vero che non c’è alternativa. L’alternativa è la conversione ambientale del sistema produttivo – e dei nostri consumi – a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti o nocivi, tra i quali l’automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti. I settori in cui progettare, creare opportunità e investire non mancano: dalle fonti di energia rinnovabili all’efficienza energetica, dalla mobilità sostenibile all’agricoltura a chimica e chilometri zero, dal riassetto del territorio all’edilizia ecologica. Tutti settori che hanno un futuro certo, perché il petrolio costerà sempre più caro – e persino le emissioni a un certo punto verranno tassate – mentre le fonti rinnovabili costeranno sempre meno e l’inevitabile perdita di potenza di questa transizione dovrà essere compensata dall’efficienza nell’uso dell’energia. L’industria meccanica – come quella degli armamenti – può essere facilmente convertita alla produzione di pale e turbine eoliche e marine, di pannelli solari, di impianti di cogenerazione. Poi ci sono autobus, treni, tram e veicoli condivisi con cui sostituire le troppe auto, assetti idrogeologici da salvare invece di costruire nuove strade, case e città da riedificare – densificando l’abitato – dalle fondamenta.
Ma chi finanzierà tutto ciò? Se solo alle fonti rinnovabili fosse stato destinato il miliardo di euro che il Governo italiano (peraltro uno dei più parsimoniosi in proposito) ha gettato nel pozzo senza fondo delle rottamazioni, ci saremmo probabilmente risparmiati i due o tre miliardi di penali che l’Italia dovrà pagare per aver mancato gli obiettivi di Kyoto. Ma anche senza incentivi, le fonti rinnovabili si sosterranno presto da sole e i flussi finanziari oggi instradati a cementare il suolo, a rendere irrespirabile l’aria delle città, impraticabili le strade e le piazze, a riempirci di veleni per rendere sempre più sterili i suoli agricoli, a sostenere un’industria delle costruzioni che vive di olimpiadi, expo, G8, ponti fasulli e montagne sventrate potranno utilmente essere indirizzati in altre direzioni. E’ ora di metterci tutti a fare i conti!
Ma chi potrà fare tutte queste cose? Non certo il Governo. Né questo né – eventualmente – uno di quelli che abbiamo conosciuto in passato; e meno che mai la casta politica di qualsiasi parte. Continuano a riempirsi la bocca con la parola crescita e stanno riportandoci all’età della pietra. La conversione ecologica si costruisce dal basso “sul territorio”: fabbrica per fabbrica, campo per campo, quartiere per quartiere, città per città. Chi ha detto che la programmazione debba essere appannaggio di un organismo statuale centralizzato e non il prodotto di mille iniziative dal basso? Chiamando per cominciare a confrontarsi in un rinnovato “spazio pubblico”, senza settarismi e preclusioni, tutti coloro che nell’attuale situazione non hanno avvenire: gli operai delle fabbriche in crisi, i giovani senza lavoro, i comitati di cittadini in lotta contro gli scempi ambientali, le organizzazioni di chi sta già provando a imboccare strade alternative: dai gruppi di acquisto ai distretti di economia solidali. E poi brandelli di amministrazioni locali, di organizzazioni sindacali, di associazioni professionali e culturali, di imprenditoria ormai ridotta alla canna del gas (non ci sono solo i “giovani imprenditori” di S. Margherita); e nuove leve disposte a intraprendere, e a confrontarsi con il mercato, in una prospettiva sociale e non solo di rapina.
Il tessuto sociale di oggi non è fatto di plebi ignoranti, ma è saturo di intelligenza, di competenze, di interessi, di saperi formali e informali, di inventiva che l’attuale sistema economico non sa e non vuole mettere a frutto.
Certo, all’inizio si può solo discutere e cominciare a progettare. Gli strumenti operativi, i capitali, l’organizzazione sono in mano di altri. Ma se non si comincia a dire, e a saper dire, che cosa si vuole, e in che modo e con chi si intende procedere, chi promuoverà mai le riconversioni produttive?
RISPOSTA A UNA PAGINA DI COMMENTO SU IL FOGLIO
Il Foglio di sabato scorso ha dedicato un’intera pagina a commentare un mio articolo sulla crisi della Fiat di Pomigliano corredando il servizio con il pugno di Lotta Continua, il gruppo in cui ho militato negli anni settanta e che si è dissolto 34 anni fa. Troppa grazia. La cosa ha offerto a molti miei critici l’occasione per dare la stura ai più triti stereotipi sugli anni 70 e sull’ambientalismo, quasi non avessero mai letto o sentito parlare prima di green economy o di riconversioni produttive. Per Stefano Cingolani: “in certe assemblee gauchiste c’era chi si alzava proponendo che la Fiat fornisse brandine agli ospedali”. Che assemblee avrà mai frequentato Cingolani in quegli anni? Non certo l’assemblea operai-studenti di Mirafiori, dove si parlava di cose molto serie, che hanno fatto la storia del paese. Scrive Sergio Soave: “Viale ripropone la tesi dell’imminente crollo del capitalismo”. Ma quando mai? E riassume il mio pensiero così: “una nuova sintesi di deindustrializzazione e mangiatori di fragoline di bosco”. Francesco Forte mi attribuisce “la teoria per cui il capitalismo è un imbroglio e l’economia di mercato una mistificazione”. Magari lo penso; ma non l’ho certo scritto e non sta tra le premesse del mio discorso. Analogamente Gianni Riotta, sul Sole24ore, mi accusa di “dare del venduto a Cisl e Uil e quasi tutta la Cgil”, e addirittura, al premio Nobel Paul Krugman, per aver scritto che per dar credito al piano della Fiat per Pomigliano bisogna essere in malafede o dementi. Sul dementi mi attengo al giudizio degli interessati. Ma si può essere in malafede senza essere venduti. Basta dar credito senza dare spiegazioni a cose che non lo meritano. E’ quello che fa Riotta e, con lui, quasi tutti i sostenitori del piano Marchionne: non si chiedono se il piano è credibile. Su questo punto diamo la parola al Foglio.
Scrive Ernest Ferrari: “D’accordo, il piano di sviluppo targato Marchionne è irrealizzabile”. Risponde Bruno Manghi: “Quella di Marchionne è una scommessa che nessuno può prevedere con certezza come finirà”. Ammette Riccardo Ruggeri, uno che conosce la Fiat “dall’interno”: “Sui sei milioni di macchine Viale non ha tutti i torti”. E aggiunge: “Magari tra non molto Marchionne chiederà altri sacrifici, perché il mercato non tira. Marchionne l’ha fatto capire più di una volta”. Poi precisa: “Ho paura che stia tornando la moda dei volumi [di vendite] piuttosto che dei talenti…anche alla Volkswagen hanno sposato la teoria dei volumi; ma ci hanno messo 15 anni, investendo una montagna di soldi”. “Insomma, c’è aria di bluff?” chiede l’intervistatore. E lui risponde: “Marchionne fa quel che può”. Anche Cingolani si chiede: “Chi può garantire che le auto non restino sui piazzali? E quanto costeranno i modelli sfornati dalle catene di montaggio?” Domande senza risposta. Cingolani le affronta con un suo personale “piano B”; questo sì, datato agli anni ’70: quando i cosiddetti paesi emergenti adottavano le tecnologie abbandonate dai paesi più industrializzati, e questi passavano a produzioni a più alto valore aggiunto (Era la teoria di Hirschmann delle “anatre volanti”, che si alzano in volo in ordine, una dietro l’altra). Ma oggi Cina, India e Brasile hanno, sì, costi del lavoro e ambientali più bassi; ma anche livelli tecnologici paragonabili ai nostri e capacità di ricerca e sviluppo superiori (anche perché da noi scuola e ricerca sono state gettate alle ortiche). Inoltre, senza impianti di assemblaggio a portata di mano, l’innovazione tecnologica e organizzativa non ha verifiche. Quindi, perché il distretto automobilistico torinese possa mantenere i suoi atout in campo motoristico e dello styling, una parte del montaggio dovrà comunque restare in Italia. Ma non è detto che tocchi a Pomigliano. Nell’assemblaggio, più che altrove, a contare sono i costi. Lo conferma Michele Magno: “La sorte dello stabilimento campano è legata a un drastico abbassamento dei costi”. L’unico a non nutrire dubbi sul piano Marchionne è Francesco Forte. E sapete perché? Perché “il piano è stato valutato positivamente dalle banche e dalla borsa”: due istituzioni che hanno raggiunto la credibilità più bassa della loro storia.
Fatto sta che, se è improbabile riuscire a vendere sei milioni di auto all’anno (un raddoppio della produzione) sui mercati di un’industria sovradimensionata e oggetto di una feroce concorrenza non solo tra gruppi industriali, ma anche tra Stati, l’aumento della produzione in Italia da 600mila a 1,4 milioni di vetture è ancora più improbabile; soprattutto perché questa produzione dovrebbe per due terzi essere smerciata in Europa. Le sorti di Pomigliano sono legate a questi obiettivi. Qualcuno ha provato a spiegare come raggiungerli? O si vuole far credere che l’unico vero problema è l’abnorme tasso di assenteismo e che un maggiore impegno contro di esso rimetterebbe le cose a posto?
Persino Riotta introduce qualche variabile in più. Oltre all’assenteismo, scrive “per giocare nella Coppa del mondo del lavoro” bisogna fare i conti con “clientele, performance scadenti, familismo amorale, raccomandazioni”. A cui io aggiungerei doppio e triplo lavoro (ma non sarà un problema di salari insufficienti?), degrado del territorio, monnezza (da non dimenticare), sfacelo amministrativo, corruzione, collusioni politiche, camorra. Tutti problemi che non si sono certo fermati ai cancelli della fabbrica, ma che sono ben presenti al suo interno. Nel management più ancora che tra le maestranze. Pensare di isolare la fabbrica dal territorio e di risolvere i suoi problemi con la disciplina del lavoro è utopia vana e crudele.
Nel 1968 la Fiat pensò di inquadrare con una disciplina di ferro 15mila nuovi assunti, messi al lavoro a Mirafiori tutti d’un colpo, senza preoccuparsi di che cosa sarebbe successo fuori della fabbrica: nel tessuto urbano di una città che tra l’altro era “sua”, ma dove per i nuovi assunti non c’era nemmeno un posto per dormire. Ne nacque una lotta che ha sconvolto gli stabilimenti del gruppo per i successivi dodici anni. Adesso si pretende di mettere in riga, con un accordo sui turni e i ritmi di lavoro e con i limiti posti al diritto di scioperare e ammalarsi, uno stabilimento industriale i cui problemi nascono soprattutto dal degrado del tessuto sociale circostante. Non dice niente, per esempio, il fatto che a presidiare il gazebo installato a sostegno dell’accordo ci fosse il sottosegretario Cosentino, incriminato per camorra, ma “immunizzato” dal Pdl?
Nessuno, prima di Prodi, aveva ancora fatto notare che la “rieducazione” degli operai di Pomigliano – per usare il termine carcerario che ben si adatta al modo in cui l’establishment italiano, politico, sindacale, imprenditoriale e giornalistico, sta affrontando il loro futuro – è già stata tentata due anni fa: con la sospensione dell’attività lavorativa, l’invio forzato di tutte le maestranze a un corso di formazione, il riadeguamento degli impianti, la rimessa a nuovo dei capannoni. Senza risultati. Chi può credere, allora, che Marchionne voglia ritentare l’esperimento, investendoci sopra 700 milioni? Rischiando anche di mettere in crisi i suoi rapporti con il partner polacco, che in questa fase è uno dei pochi atout a sua disposizione? Non è forse più sensato ritenere, o almeno ipotizzare, che Marchionne voglia sbarazzarsi di Pomigliano, oltre che di Termini Imerese; e non potendo farlo senza mettere in crisi i suoi rapporti con governo, opposizione, sindacati e maestranze – magari provocando anche una rivolta tra la popolazione – cerchi solo il modo per farne ricadere su altri la responsabilità? Se non sarà l’esito del referendum (verosimilmente non lo sarà) sarà la Fiom. Se non sarà la Fiom sarà l’iniziativa di base; o il “disordine” del territorio; o i contenziosi in tribunale; o un ricorso alla Corte Costituzionale. O, più semplicemente, il prossimo aggiornamento sulla situazione dei mercati. Intanto, a segnare un punto, è stata la politica antioperaia di tutto il governo.
Sembra però che la conversione ambientale dello stabilimento di Pomigliano, o di altre fabbriche in crisi, urti contro la centralità della produzione automobilistica (una volta la centralità era della classe operaia, ma i tempi sono cambiati). ”E’ indubbio – scrive Michele Magno – che il settore automobilistico, pur maturo sul piano merceologico e tecnologico, continui a incarnare lo spirito del tempo”; perché “continua a svolgere un ruolo cruciale sia nella formazione del Pil, sia nella dinamica occupazionale”; e perché “il cuore delle innovazioni organizzative…continua a pulsare qui”. Nessuno però ha proposto di chiudere il settore automobilistico dall’oggi al domani. Basterebbe non strafare con i volumi, come raccomanda anche Ruggero. E non gravare un gruppo già provato con un peso che probabilmente non può sostenere. “E’ in gioco – continua Magno – il futuro di quel che resta della classe operaia meridionale”. D’accordo. Ma, proprio per questo, non sarebbe bene pensare a delle alternative per uno stabilimento così a rischio?
Per verificare se è vero che l’azienda vorrebbe sbarazzarsi di Pomigliano bisognerebbe poterla mettere di fronte a una alternativa praticabile, esigendo impegni precisi a garanzia del processo di conversione. Non certo di assumerne la gestione, per la quale vanno comunque individuati soggetti, attori e culture aziendali differenti. Bensì la cessione degli impianti e il finanziamento della transizione. Ma oggi un’alternativa del genere non c’è. Nessuno ci ha pensato; e nessuno sembra neanche in grado o disposto a pensarci; anche se l’adozione di un’alternativa praticabile converrebbe sicuramente sia alla Fiat, che ai lavoratori, che al paese. E anche al pianeta.
Ma nessuno potrebbe mai pensare di avviare la riconversione di uno stabilimento industriale alla green economy con una semplice stretta della disciplina di fabbrica, come molti pensano – e sperano – che si possa fare invece trasferendo la Panda a Pomigliano. Perché una conversione produttiva di quella portata e con quelle finalità è proprio l’opposto di quell’idea “larvatamente autoritaria” di chi dice “Farò io il vostro bene” pensando di poter “pianificare le svolte dello sviluppo”, come sostiene Bruno Manghi sul Foglio e Riotta ripete sul suo giornale.
Infatti, se non si può pensare di cambiare una fabbrica solo con la disciplina, occorre passare attraverso la mobilitazione delle forze sane del territorio, una discussione sulle ragioni della conversione, un coinvolgimento delle risorse intellettuali delle comunità interessate. Per poi procedere a verifiche di mercato, a progettazioni di massima, e alle battaglie per impegnare i diversi livelli del governo locale e nazionale. Sono cose che non si preparano né in un giorno né in un anno; c’erano però da anni molti motivi per cominciare a lavorarci. Ma non è mai troppo tardi. Perché se il piano Marchionne è un bluff, bisognerebbe evitare di ritrovarsi nella situazione di Termini Imerese, dove ogni giorno si escogitano altri bluff con il solo scopo di “tener buoni” gli operai lasciati sul lastrico.
MA CI SONO ALTERNATIVE ALLA RICONVERSIONE AMBIENTALE?
Sia Eugenio Scalfari che Gianni Riotta, nei loro editoriali di domenica scorsa su Repubblica e ilsole24ore hanno messo giustamente in evidenza il rapporto tra la vicenda di Pomigliano e la globalizzazione, come già aveva fatto Luciano Gallino pochi giorni prima. L’apertura dei mercati mondiali, che è l’essenza della globalizzazione, porta inevitabilmente a un livellamento dei salari e della produttività del lavoro, intesa come intensità dello sfruttamento, o, se vogliamo, dell’erogazione della prestazione. Cioè verso un miglioramento nei paesi emergenti o restituiti, come l’Est europeo, allo “sviluppo”; e verso un peggioramento nei paesi già industrializzati e “affluenti”, tra cui l’Italia.
In queste comparazioni si leggono spesso cifre che meriterebbero una verifica: per esempio, è vero che dallo stabilimento Fiat di Pomigliano dipendono ben 10mila posti di lavoro nell’indotto locale? Ed è proprio vero che a Tychy, in Polonia, gli operai producono 10 auto per ognuna di quelle prodotte a Pomigliano? A parte la diversità dei modelli e della relativa complessità, dove sta la linea di demarcazione tra produzione di componenti e assemblaggio? E’ la stessa nei due stabilimenti o a Pomigliano ci sono più attività “internalizzate” che a Tychy? E i salari di Pomigliano, misurati sul costo della vita, quanto sono ancora superiori a quelli d Tychy?
Comunque sia, per partecipare “alla Coppa del mondo del lavoro” Riotta ritiene che Pomigliano deve dimostrare che può produrre di più e a costi minori che in Polonia. Chi non accetta il gioco, combatte modernità e sviluppo. Questo approccio, che relega il Mezzogiorno nell’area del sottosviluppo (Napoli come colonia produttiva, come lo sono Polonia, Turchia o Serbia) rispecchia la linea di Confindustria, che vede nel diktat di Marchionne un modello per tutta l’industria italiana. Ma, attenzione! L’Italia è ancora una (nonostante la Lega) e questa accondiscendenza alle leggi della globalizzazione rischia di travolgere non solo Napoli, ma anche Torino e Milano; e con esse Riotta.
Scalfari vede il problema e cerca un rimedio a un processo che gli pare irreversibile. Il rimedio è una politica redistributiva dello Stato che compensi con misure fiscali l’inevitabile erosione del potere di acquisto dei salari e con misure di welfare il peggioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche. Se pensiamo alla cricca di Bertolaso, che ha divorato in meno di dieci anni 13 miliardi di euro, o ai costi della politica, che ne consumano molti di più, o ai bonus dei manager (che però “se li guadagnano”: i loro non sono forse redditi da lavoro?), o all’evasione fiscale e ai condoni, che hanno portato il carico fiscale di chi paga le tasse (cioè i lavoratori dipendenti e la gente onesta) ben oltre il 50 per cento del reddito, una compensazione del genere pare non solo possibile, ma doverosa. Ma quelle risorse (Marx le chiamava plusvalore) provengono sì dalla compressione dei redditi da lavoro (in termini di potere di acquisto i salari italiani sono ormai i più bassi dell’Europa a 15); ma proprio la necessità di comprimerli ulteriormente è destinata a prosciugare anche il surplus a cui attingere per una auspicabile quanto per ora improbabile politica di redistribuzione. In ogni caso estrarre dal o contenerne gli effetti livellatori non potrà mai tenere il passo con i ritmi della globalizzazione.
Ci sono altre alternative a questa due indicazioni? Non lo è certo il protezionismo, più volte proposto dalla Lega e da Tremonti (un commercialista osannato come “genio” da supporter e oppositori che predica il contrario di quello che fa e nasconde quello che fa con i giochi di parole: l’ultima trovata è chiamare “economia sociale di mercato” la sua marcia forzata verso liberismo e privatizzazioni). Comunque, chiudere o restringere i varchi alle importazioni, posto che l’Europa lo consenta – l’Italia non ha più l’autonomia per farlo – vuol dire restringere di altrettanto gli sbocchi delle nostre produzioni. Una politica che l’industria italiana non può permettersi.
Meno che mai c’è un’alternativa nella teoria proposta e riproposta da Stefano Cingolani sul Foglio, delle flying geese: le anatre che si alzano in volo una dietro l’altra, come i paesi emergenti che adottano prodotti e tecnologie abbandonati dai paesi industrializzati mano a mano che questi passano a produzioni a più alto valore aggiunto. Una “teoria dello sviluppo” in cui nessuno perde. Ma da tempo le cose non si svolgono più in modo così ordinato; ricerca e istruzione – peraltro da noi completamente abbandonate e sostituite dalla più stupida televisione del mondo – hanno ormai messo diversi paesi emergenti (Cina, India soprattutto) alla pari, se non più avanti dell’Italia, sia in campo scientifico che tecnologico, pur avendo mantenuto costi del lavoro e ambientali di gran lunga inferiori.
Ma ci sono altri “fattori competitivi” con cui contrastare gli effetti perversi della globalizzazione? A mio avviso – ma non è un parere personale; è solo la mia personale esposizione di un pensiero condiviso da milioni di persone che in vari modi lo praticano o cercano le strade per praticarlo – c’è un solo modo per contenere gli effetti perversi del livellamento indotto dalla globalizzazione, sia sui paesi oggi affluenti, sia su quelli emergenti, sia su quelli rimasti ai margini. Ma c’è un solo modo anche per contenere il divide tra ricchi e poveri, che passa sempre di più all’interno delle nazioni e sempre meno nel rapporto tra una nazione e l’altra.
La strada da imboccare è la progressiva e graduale “riterritorializzazione” dei mercati e delle produzioni. Un processo che non tocca l’informazione e i saperi (i bit), la cui circolazione sarà resa sempre più fluida dalla diffusione della rete, nonostante tutti gli ostacoli legali e proprietari imposti alla circolazione delle conoscenze; ma che renderà sempre più costosa la circolazione dei beni fisici e dei materiali (gli atomi): sia per il costo dei combustibili, destinato comunque a crescere verticalmente, sia per gli impatti delle loro emissioni. Ma è un processo che va assecondato e governato, per evitare che abbia conseguenze dirompenti sulle nostre vite.
La riterritorializzazione di mercati e produzioni coincide in gran parte con la conversione ambientale nei settori vitali del sistema economico. Questo obiettivo è ormai chiaro e largamente condiviso nel settore agroalimentare, dove molti sono ormai concordi nel denunciare i danni delle monoculture, dell’uso dei fertilizzanti e dei pesticidi chimici, dell’espropriazione dei coltivatori diretti (che Carlo Petrini insiste giustamente a chiamare “contadini”, perché sono portatori di una vera cultura, non solo tradizionale ma anche innovativa e scientificamente aggiornata). Qui riterritorializzazione significa multifunzionalità delle aziende agricole, valorizzazione delle colture e delle specialità tradizionali, delle specie autoctone, delle produzioni biologiche, Km0: è l’unica strada per restituire la sovranità alimentare a tutti i paesi e a ogni comunità.
Subito dopo viene la valorizzazione dei materiali di risulta (con il riciclo degli scarti) e dei prodotti già in uso (con la promozione della loro durata attraverso la cultura della manutenzione e del riuso). Il terzo ambito è quello della mobilità sostenibile, con servizi di trasporto condivisi, anche personalizzati, al posto della ormai insostenibile diffusione della motorizzazione privata. Poi viene la manutenzione del territorio e dell’edificato. Ma il primo posto spetta comunque all’efficienza energetica e alle fonti rinnovabili, per sfruttare in modo decentrato, distribuito e autonomo le risorse locali di ogni territorio (ho cercato di presentare nel modo più semplice possibile le problematiche connesse alla riconversione di questi settori nel mio Prove di un mondo diverso, Nda Press, 2009).
Enunciate così, sono indicazioni astratte; ma ciascuna è suscettibile di infinite contestualizzazioni in grado di valorizzare le risorse tanto dei paesi affluenti che di quelli emergenti o emarginati. Ma si tratta, nel caso specifico del nostro paese e del contesto europeo, di indicazioni in grado di valorizzare anche i due principali “fattori competitivi” residui su cui possiamo ancora contare.
Il primo è la complessità sociale, l’estrema differenziazione dei ruoli, delle competenze, delle esperienze, dei saperi, che coincide con il processo di individualizzazione del corpo sociale protrattosi per tutto il corso dell’era moderna e che il conformismo e l’omologazione promossi dalla società di massa non sono ancora riusciti a cancellare. Una complessità che i paesi emergenti ancora non conoscono; o che spesso hanno distrutto per una troppo rapida accettazione degli stereotipi occidentali, ma che sicuramente non possono ricostruire in pochi anni.
Il secondo è la diffusione dei saperi presente all’interno del tessuto sociale, che non è più fatto da tempo di plebi ignoranti, ma nemmeno solo di competenze formali acquisite in ambiti scolastici, avulsi dai contesti sociali (si tratta, anche in questo caso, di un fattore a rischio, incalzato da quella “dittatura dell’ignoranza” che è l’epitome dello il Zeitgeist).
E perché sono “fattori competitivi”? Perché la transizione verso produzioni ambientalmente compatibili non solo è irrealizzabile senza una partecipazione consapevole delle comunità coinvolte; ma ha anche bisogno dei loro saperi. Sia di quella conoscenza del territorio e dei contesti sociali che solo chi vive in essi possiede; sia delle competenze che ciascuno ha sviluppato attraverso esperienze di studio, di lavoro o di vita che le strutture aziendali, stregate dai risparmi realizzati a spese del precariato, non sanno più valorizzare. Ma la transizione verso la compatibilità ambientale può mettere capo a modelli tecnico-organizzativi che possono essere esportati o comunque diffusi in tutto il mondo. Si pensi al valore di una rete locale di energia rinnovabile, distribuita e autosufficiente; a uno schema di mobilità fondato sul trasporto flessibile; ai vantaggi, anche economici, di un diffuso ricorso all’ecodesign; ai modelli di edilizia popolare ecocompatibile; a una filiera agroalimentare territorialmente circoscritta, capace di mettere a frutto tutte le conoscenze scientifiche disponibili (che non sono l’ingegneria genetica): eccetera.
Si tratta allora di creare, o riaprire, degli spazi pubblici dove questi saperi possano confluire, confrontarsi, integrarsi, pur nella irriducibile diversità di valori e interessi di cui sono espressione; e, alla fine, sintetizzarsi in una o più proposte di transizione a livello locale. Ha qualcosa a che fare tutto ciò con la vicenda di Pomigliano? NO, se quella vicenda viene vissuta come una “emergenza”: un “prendere o lasciare” imposto all’ultimo momento. I processi di transizione e la conversione ambientale hanno bisogno di tempo per maturare; ma soprattutto di soggetti e di attori che la promuovano. SI’, però, se si affrontano i problemi per tempo; mano a mano che l’inevitabilità delle crisi aziendali e delle produzioni attuali comincia a prospettarsi. E questo è, tra gli altri, il caso tanto di Termini Imerese quanto di Pomigliano.
RISPOSTA A CARLA RAVAIOLI
Devo una risposta a Carla Ravaioli che sul manifesto dell’8 luglio (Caro Viale, non fare un passo indietro) mi accusa di soprassedere alle premesse di quanto vado da tempo sostenendo, cioè la necessità di una “conversione ecologica” dell’apparato produttivo (e del relativo modello di consumi), cosa particolarmente evidente, tra l’altro, nelle industrie e negli impianti di produzione che non hanno avvenire perché senza più mercato. Le premesse da me “dimenticate” – se ho capito bene – riguardano il fatto che l’insostenibilità degli attuali sistemi di produzione e modelli consumo è intrinseca al capitalismo e che quella riconversione è possibile solo con il superamento della società capitalistica. Non è un’accusa nuova. Rivolta sia a me che ad altri, ricorre spesso nei dibattiti sulla crisi o sull’ambiente a cui mi capita di partecipare.
Quell’accusa è fondata: se l’auspicio di una conversione ecologica, senza ulteriori specificazioni riferite a fatti o contesti circostanziati che aiutino a definirne o precisarne contenuti o percorsi è una banalità, il rimando al “superamento del capitalismo” come condizione della sua realizzazione, senza entrare nel merito delle situazioni in cui si manifestano le criticità (quelle che una volta si chiamavano le “contraddizioni”), lo è ancor di più; e io, come altri, cerco di evitare sia l’una che l’altra. Cerco cioè di non avallare enunciati come quelli che sia Francesco Forte che Carla Ravaioli mi attribuiscono, secondo cui “il capitalismo è un imbroglio e l’economia di mercato una mistificazione”. Sarà anche vero, ma con pensieri come questi non si va lontano.
Perché ricondurre tutto al “capitalismo” dà a molti una falsa sicurezza e a volte addirittura un senso di superiorità: la convinzione di “saperla lunga”; così “lunga” che non vale la pena entrare nel merito di problemi particolari. Invece “ne sappiamo” sempre troppo poco; e quello che sappiamo lo dobbiamo per lo più ai contributi di studiosi o militanti che si sono confrontati con situazioni specifiche e circostanziate, anche se la forza del loro pensiero o della loro prassi deriva dalla capacità di inquadrare quei problemi in un approccio generale: agire localmente e pensare globalmente.
Ma un vero e proprio vuoto di pensiero – e di prassi – fa capolino nell’allusione, sempre più vaga, al “superamento del capitalismo”. Che cos’è? Una volta si diceva socialismo, comunismo, dittatura del proletariato, rivoluzione. Oggi quelle parole nessuno – o quasi – osa più pronunciarle: non perché manchi il coraggio, come pensa Carla Ravaioli; ma perché non sappiamo più che cosa vogliano dire; o se lo sappiamo, o pensiamo di saperlo, non lo vogliamo più. Uno Stato che pianifichi produzioni e consumi, e magari anche le nostre vite e la nostra morte, non lo desidera più nessuno. Molto spesso, dietro l’invocazione di un maggiore intervento dello Stato, di questo Stato, qui e ora, si nasconde solo la pigrizia mentale di chi ha comunque avallato le briglie sciolte al mercati, perché “non c’è alternativa”. Il che probabilmente sta alla base della dismissione di quella che per tutto il secolo scorso era stata la “sinistra”. La società di domani va pensata e costruita giorno per giorno, per tentativi ed errori, senza grandi modelli reali, o immaginari, a cui far riferimento; attrezzandosi, per quanto è possibile, per far fronte a passaggi drammatici e rotture improvvise.
Qualcuno dice “decrescita” ed è sicuramente un’idea sensata: i limiti del pianeta, come ci ricorda Carla Ravaioli, sono incontestabili. Ma quando di fronte alle otto “erre” di Latouche si prospettano problemi concreti, o percorsi da individuare e intraprendere, la sensazione che se ne trae è quella di un vuoto pneumatico. Se è una battaglia culturale – che ovviamente ha anche dei risvolti pratici – contro il feticcio della crescita, ben venga; forse andrebbe condotta con più modestia, cercando di fare i conti con i molti problemi a cui nessuno di noi sa ancora dare una risposta.
A ricondurre però a un denominatore comune molto del pensiero, della prassi e delle lotte più radicali e incisive degli ultimi anni è probabilmente la rivendicazione di una gestione condivisa, o partecipata, o per lo meno negoziata, dei beni comuni: sia che si tratti di impedirne una appropriazione privata; sia che si tratti di rendere disponibile a tutti beni, materiali o immateriali, che sono già da tempo sottoposti a un regime proprietario; in entrambi i casi, aprendo le porte o imboccando la strada di una gestione che non è né dello Stato né “del mercato”; bensì il perno della ricostituzione di uno “spazio pubblico” che è la sede costitutiva della politica intesa come autogoverno. La conversione ecologica è interamente affidata a itinerari del genere. Ma la distanza che separa questi sforzi e questi percorsi dall’ideale di una società equa e sostenibile e dalla capacità di condizionare o destituire le sedi da cui oggi si esercita il potere è, com’è ovvio, e con qualche eccezione importante e istruttiva, ancora molto grande. E non può essere colmata solo a parole.
ARTICOLO SUL FOGLIO
Non era difficile prevedere che l’”incidente di Pomigliano” (il NO della Fiom e del 40 per cento degli operai al diktat della Fiat su turni, ritmi di lavoro, diritto di sciopero e diritto di ammalarsi) avrebbe offerto all’azienda l’occasione per rimettere in discussione il suo “piano industriale” fantasma dal pretestuoso titolo di “Fabbrica Italia”; un piano per dare credito al quale bisognava chiudere gli occhi sia sui bilanci, come ha fatto notare sul Corriere di ieri Massimo Mucchetti, sia sullo stallo del mercato, come hanno fatto notare a più riprese quasi tutti gli esperti del settore.
Altrettanto facile era accorgersi di come con la sua mossa Marchionne mirasse a cogliere due piccioni con una fava: mettersi alla testa di un attacco frontale alle condizioni di lavoro e salariali degli operai italiani, già largamente risicate da trent’anni di sconfitte sindacali, e attribuire ad altri – ieri alla Fiom; oggi genericamente ai sindacati italiani, compresi quelli che hanno sottoscritto senza fiatare il suo diktat, convinti di acquisire così dei meriti presso l’azienda e il governo – la responsabilità della mancata attuazione del suo “piano industriale”.
Quali siano le condizioni di una “moderna politica industriale”, quelle invocate da tutti coloro che hanno accolto con entusiasmo l’accordo di Pomigliano, ce lo mostra con chiarezza il trasferimento in Serbia della produzione che “Fabbrica Italia” aveva riservato a Mirafiori. Bombardare un paese, fare tabula rasa dei suoi impianti industriali, riempire il territorio con 400 tonnellate dei peggiori veleni (tra cui diossina, uranio impoverito, cloruro di vinile), licenziare e mettere alla fame tutti gli operai; e poi riassumerli a scaglioni, scegliendoli uno per uno, in un impianto nuovo finanziato con denaro pubblico e risanato a spese dello stato: ecco un contesto che consente di ottenere dalle maestranze prestazioni che in Italia sono per ora irraggiungibili. D’altro canto, non è difficile rendersi conto che i salari italiani, anche ridotti all’osso ed erosi dalla cassa integrazione, non possono competere con i 400 euro al mese (esentasse) della Serbia o con i 600 della Polonia. Se la scelta tra Mirafiori e Kragujevac dipende solo dalle condizioni di lavoro e dai livelli salariali, per fare qui o là le stesse cose, la scelta è presto fatta. Senza contare che basterebbe chiedersi come si vive in Serbia con 400 euro, in Polonia con 600 e a Torino con 1200, affitto compreso (e alcune inchieste giornalistiche ne hanno dato conto) per rendersi conto che l’Italia è ormai precipitata all’ultimo gradino della condizione operaia in Europa.
Ma – secondo piccione, anche questo prevedibile e previsto, nonostante lo stupore del sindaco di Torino e del Segretario della Fiom – con l’”incidente di Pomigliano” anche il piano industriale della Fiat è diventato ballerino. L’unica certezza è che Termini Imerese verrà chiusa senza occuparsi del suo futuro; ma che cosa succederà di Pomigliano, di Mirafiori, e domani di Cassino o di Pratola Serra, non è dato sapere, se non che Marchionne “ci sta pensando”. In un mercato sempre più competitivo, dove a competere non sono solo i marchi e i gruppi che li controllano, ma anche e soprattutto gli Stati e le loro finanze, in ogni momento una nuova delocalizzazione potrà essere presentata come ultima spiaggia per evitare il fallimento. Il che equivale a dire che quel piano industriale non c’è più; se mai c’è stato.
La verità è che, industria e lavoro, soprattutto in Italia, hanno ben poche prospettive nel settore dell’auto. Molto meglio quindi sarebbe apprestare e discutere fin da ora idee, strategie, progetti, condizioni di realizzazione, prospettive di mercato e di finanziamento di una conversione produttiva degli stabilimenti sotto scacco. Prima lo si fa, meglio sarà per tutti.
iNTERVENTO SU ILSOLE24ORE
Se “l’auto senza mercato è ruggine”, come scrive Gianni Riotta sul sole24ore di domenica (e io sono d’accordo), Fabbrica Italia – il piano industriale della Fiat che prevede per il 2014 la produzione di 1,4 milioni di veicoli in Italia (e di 6 milioni nel mondo), di cui due terzi da esportare – è una immane fabbrica di ruggine. Per fortuna Fabbrica Italia è solo fumo: una sostanza che la ruggine non aggredisce. Le condizioni di quel piano non ci sono. Il mercato europeo non “tira” né tirerà nei prossimi anni, anche a prescindere da eventi non considerati dal marketing, come il picco del petrolio di cui si è occupato questo giornale lunedì scorso. Gli incentivi elargiti all’auto in tutto il mondo per fare fronte alla crisi hanno affossato più che avvantaggiare i veicoli di fascia bassa prodotti dalla Fiat (lo conferma su Repubblica di domenica Filippo Pavan Bernacchi, presidente dell’associazione dei concessionari). Gli stabilimenti Fiat non raggiungeranno in pochi anni la disciplina che Marchionne vorrebbe imporre alla maestranze del gruppo. Peggio che mai per Mirafiori: sostituire il monovolume ceduto alla Serbia con la produzione dell’Alfa non è un affare come pensano i sostenitori “esterni” di Fabbrica Italia: quelli che non avranno mai accesso alle stanze della gestione aziendale, come i sindacati; e quelli che hanno fatto carriera con le quote latte e le ampolle del dio Po e che ora affrontano le politiche industriali con lo stesso bagaglio. Una per tutte: “Per quintuplicare le produzioni dell’Alfa in meno di cinque anni bisogna pensare di venderne anche sulla Luna e su Marte”. A sostenerlo è Arndt Ellinghorst del Credit Suisse sul Corriere del 1° luglio; ma non fa che dire con parole sue quello su cui concordano tutti gli esperti del settore. Anche sul piano finanziario Fabbrica Italia lascia a desiderare: la Fiat non ha risorse né credito per realizzare il suo piano e si internazionalizza con il denaro di altri: del governo e dei sindacati negli Stati Uniti; dello Stato e della Bei in Serbia (cui l’Unione Europea concede di far arrivare alla Fiat denari che proibisce invece di elargire in Italia). La Fiat aveva cercato di fare la stessa cosa in Germania con Opel; ma non sempre il gioco riesce e domani Fiat auto, svuotata dei settori meno critici, potrebbe anche venir comprata e volar via dall’Italia. Che cosa è dunque meglio fare? Insistere su una prospettiva aleatoria e improbabile o virare verso una conversione produttiva dalle prospettive più certe e dai mercati più sicuri?
Il problema è il lavoro. Mettere in competizione, come fa la Fiat, gli stabilimenti o le diverse opzioni del gruppo vuol dire perseguire in Italia condizioni di lavoro massacranti e salari precari: cose che è più facile – e cinico – imporre in un paese bombardato, umiliato, distrutto e ridotto alla fame come la Serbia. E’ il mercato, bellezza! Il più lucido e pessimista esponente di questo modo di pensare è Eugenio Scalfari, per il quale la globalizzazione ha reso i mercati del lavoro dei paesi emergenti e dei paesi sviluppati vasi comunicanti. Salari e condizioni di lavoro sono destinati a peggiorare nei primi e a migliorare nei secondi, fino ad allinearsi. Lo impongono le leggi del mercato. Per Scalfari il rimedio è applicare, con la politica fiscale, l’effetto dei vasi comunicanti anche all’interno dei singoli paesi, in modo che i redditi alti scendano e quelli bassi salgano, fino (forse?) ad allinearsi anch’essi. Ma quel parallelismo non regge: la globalizzazione che livella redditi e condizione dei lavoratori non è un meccanismo “naturale”, ma un processo molto ben governato; che sfugge al controllo dei singoli Stati perché questi hanno ceduto molte delle loro prerogative a organismi e istituzioni che non controllano più; ma che è invece controllato da pochi grandi gruppi e dalla finanza internazionale. Analogamente la crescente disparità dei redditi – che non riguarda solo l’Italia – è il frutto di politiche trentennali che hanno privilegiato rendite e professionisti (oltre che ceti politici e malavita organizzata) a scapito del lavoro dipendente e precario. I due processi sono tra loro legati e non si arresta il secondo senza mettere sotto controllo il primo. E viceversa. Ma come?
Riconducendo processi produttivi e modelli di consumo a una maggiore sobrietà e a una minore aggressione alle risorse del pianeta, cioè a dimensioni territoriali più circoscritte, che consentano un maggiore controllo delle filiere. Fonti energetiche rinnovabili e efficienza energetica – ma anche agricoltura e industria alimentare, mobilità ed edilizia sostenibili, tutela del territorio e riciclo degli scarti – sono campi in cui questa conversione oggi può e domani dovrà inderogabilmente venir perseguita. Knowhow e risorse impiantistiche e umane della Fiat potrebbero essere gradualmente disimpegnate dall’auto e convogliate verso progetti di cogenerazione e di generazione eolica e marina. Persino la Volkswagen ha cominciato a farlo: copiando un progetto della Fiat di quarant’anni fa…
RISPOSTA A UNA LETTERA PUBBLICATA DA IL MANIFESTO
Anche io auspico, e non da ora, una società dove tutti lavorino e si lavori meno; e dove i lavori pesanti e ingrati vengano distribuiti a turno. Quella società lo Stato che pianifica l’economia non la ha mai realizzata – e neanche tentata – né nella versione “stalinista” dello Stato monopolista, né in quella “socialdemocratica”, che combina Stato e mercato nel governo dell’economia. Questo non vuol dire che nel capitalismo si viva meglio (né ora né in passato; un’”epoca d’oro del capitalismo” per me non è mai esistita). Vuol dire semplicemente che occorre esplorare nuove vie e che, forse, al concetto di “piano” come governo dell’economia va dato un altro significato: non il controllo, e nemmeno la “direzione”, dello Stato sui processi produttivi, ma soluzioni e sistemi di gestione in continua ridefinizione, fondati sulla condivisione, sulla partecipazione e sulla negoziazione, che potenzino e valorizzino il bisogno e la capacità dei membri di una comunità di associarsi tra loro liberamente. Anche solo riconoscere ed evidenziare queste potenzialità in molti processi in corso è un passo avanti. Infine, io sui ponteggi non ho mai lavorato; ma se non avere le mani callose dovesse togliere a qualcuno il diritto di parola, forse persino la redazione del manifesto, e con lei questo giornale, dovrebbero scomparire. Ovviamente non sono d’accordo (G.V.)
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