Tutti e tutto per Gaza
Mai si era vista, in Italia e forse nel mondo, una mobilitazione così ampia, diffusa e intensa come quella a cui assistiamo e partecipiamo in questi giorni per Gaza, per la Palestina, contro il genocidio, per la pace. È come se la rabbia e il disgusto per tutto quello che incombe, a lungo covata e compressa, sia improvvisamente e positivamente esplosa.
Ancora una volta è l’Italia a rivelarsi il punto di confluenza delle tante tensioni che attraversano il mondo, ma questo stesso movimento è in corso in decine e decine di altri Paesi ed è andato crescendo fin da poche settimane dopo lo shock del 7 ottobre.
È ovunque un movimento apartitico, sovrapposto agli schieramenti politici, interclassista ma sostenuto da lavoratori dei più diversi settori, intergenerazionale.
A fargli da traino, soprattutto in Italia, sono però i giovani e i giovanissimi: la coorte di età (non la generazione) successiva a quella di Fridays for Future che sei anni fa aveva portato nelle piazze di tutto il mondo sei milioni di ragazze ragazzi, poi in larga parte stroncata dal lockdown del Covid, non prima di aver passato la staffetta agli attivisti di Ultima Generazione. Di due lunghezze posteriore a quella che a partire dalla Tunisia aveva innescato le primavere arabe e poi Occupy the World e ancora, risalendo le coorti, ma qui anche una generazione, di tre lunghezze posteriore alla fioritura del movimento altermondialista (quella nota, allora, come “no-global”) esploso a Seattle e stroncato a Genova.
Vale la pena ricordare queste ondate, tutte infrante contro muri di repressione feroce o di isolamento politico, perché questa mobilitazione, anch’essa ormai mondiale – innescata dall’indignazione per il genocidio di Gaza pubblicamente ostentato a coronamento della società dello spettacolo in cui siamo immersi – potrebbe in poco tempo riprendere, far propri e rielaborare spunti, aspirazioni, visioni e obiettivi, mai veramente tramontati, dei movimenti che l’hanno preceduta.
Oltre ad accogliere, assimilare e sviluppare i contenuti dei tanti moti in corso, dal Nepal al Marocco, dalla Serbia al Madagascar, dal Kenya all’Indonesia, contro la corruzione, lo sfruttamento, l’arricchimento dei pochi a spese dei più, dell’istruzione, della sanità, della stessa sopravvivenza, animati anch’essi da giovani e giovanissimi. Ma intanto il movimento si è già confrontato con le prescrizioni più feroci del Decreto Sicurezza contro cui le passate mobilitazioni non avevano ottenuto risultati.
Le premesse ci sono tutte, perché la mobilitazione internazionale per Gaza dura ormai da due anni ed è in crescita, alimentata dall’indignazione e dall’insofferenza per la nullità intellettuale, morale, culturale, prima ancora che politica e sociale, delle élite di quasi tutto il mondo “occidentale”. La sua apartiticità (e in parte anche apoliticità, soprattutto nei confronti delle istituzioni), lungi dall’essere un limite, potrebbe rivelarsi un vantaggio, lasciando alle diverse espressioni del movimento lo spazio e il tempo per impegnarsi in un’elaborazione autonoma dei temi con cui si troverà via via a doversi confrontare: la violenza, la guerra, il cinismo, l’ipocrisia, ma poi anche il clima, l’ambiente, le diseguaglianze, la miseria materiale e la povertà spirituale in un mondo tecnicamente in grado di liberarci da entrambe.
La sequenza da mobilitazione “propal” a occupazione di scuole e università (e “acampadas” e assemblee di quartiere, di fabbrica e di azienda: come nel rapporto tra studenti, territori e Gkn) e nuove forme di politicizzazione che nascono da esperienze condivise e non da un indottrinamento di organizzazioni già costituite, è la sequenza in cui molti hanno visto un parallelismo con gli sviluppi delle mobilitazioni per il Vietnam, seguite dalle occupazioni, dalle lotte di fabbrica e da una allora inedita politicizzazione di massa 50-60 anni fa. Salve le grandi differenze del contesto (oggi molto peggiore di allora), si tratta comunque di una suggestione da coltivare.
Un’ultima considerazione: la guerra in Ucraina ha scavato un solco profondo tra favorevoli e contrari al sostegno del conflitto “fino alla vittoria” in quella nebulosa di persone che fino ad allora avevano mantenuto o fatto proprio un riferimento comune a principi come la solidarietà, la fratellanza (e la sorellanza), l’aspirazione o l’impegno per il riscatto degli ultimi, il rispetto delle vite di tutti, l’insofferenza per le dittature e il dispotismo. E mentre la maggioranza, soprattutto in Italia, sembra essere, fin dall’inizio, favorevole a un’iniziativa diplomatica, mai promossa, per porre fine al reciproco macello, i governi dall’Europa si sono fatti forti del sostegno che ricevono dai fautori della resistenza – o della riconquista – “ad oltranza”, per promuovere una cultura della guerra, una corsa micidiale al riarmo e alla militarizzazione della società, una vera e propria chiamata alle armi.
Il massacro di Gaza sembra però aver fatto riflettere, soprattutto le generazioni più giovani e meno impregnate di posizioni precostituite, sulla insopportabilità di ciò che la guerra, ogni guerra, comporta: non solo dalla parte delle vittime, degli “aggrediti”, ma anche da quella dei carnefici, degli “aggressori”. Gli sviluppi della mobilitazione per Gaza non possono che spingere a prendere posizione anche contro l’inanità dei massacri in corso: anche quelli di entrambe le sponde del fronte ucraino.




