Traccia del mio intervento al convegno capitalismo e democrazia del 2a-26 ottobre indetto dall’associazione Altra mente
La democrazia non è solo un ordinamento giuridico e una strumentazione istituzionale per dare forma e legittimazione ai processi decisionali. E’ anche e soprattutto il prodotto di un assetto sociale, di una composizione di classe, di un processo politico, di una cultura. Il capitalismo nei cosiddetti “Trenta gloriosi” era disposto a convivere con la democrazia (e con quelle Costituzioni messe sotto accura dalla banca J. P. Morgan e, dietro di lei, dal Parlamento italiano) aveva di fronte a sé un assetto sociale radicalmente diversa da quella attuale.
Intanto bisogna restringere il campo di applicazione di quella democrazia. Riguardava una ristretta parte del mondo: le nazioni, e nemmeno tutte, dei paesi occidentali industrializzati. Nel resto del pianeta vigevano regimi a cavallo tra dittature, le ultime guerre coloniali, e la ricostruzione di un dominio di tipo economico che allora si chiamava neo-colonialismo. Senza dimenticare che anche in Europa, nel pieno della ricostruzione postbellica, erano ancora in piedi regimi fascisti in Spagna e Portogallo, e altri ne sarebbero stati introdotti in Grecia e Turchia.
In secondo luogo la democrazia non ha mai riguardato l’esercizio del potere all’interno dell’impresa: ne erano escluse, cioè, tutte le attività produttive. Questa esclusione avrebbe trovato un parziale limite in diversi di istituti contrattuali imposti dalla lotta sindacale; ma solo in un secondo tempo (prima il paradigma era la Fiat di Valletta, come oggi lo è quella di Marchionne).
Infine, la democrazia in quella fase storica riguardava più aspettative e speranze di un riscatto futuro che la realtà del presente e della vita quotidiana. In una parte consistente e vitale dell’Occidente si erano in vario modo insediate aspettative di un cambiamento sociale che restituisse dignità e garantisse benessere a chi ne era privo. O più spesso – ma non sempre in alternativa a quel sogno – aspettative di promozione sociale: dalla campagna alla città, dal lavoro manuale a quello di ufficio, dall’ignoranza all’istruzione, dalla miseria al consumismo; aspettative di cui la scuola di massa era stato il principale veicolo: il cosiddetto “ascensore sociale”. Senza quelle aspettative presto deluse, quando l’evidenza di quei percorsi aveva cominciato a dileguarsi, sarebbe arduo spiegare i movimenti del ’68.
Delimitato così il campo della democrazia, in quel periodo il capitale aveva di fronte a sé un proletariato industriale e terziario in cui, soprattutto in Europa, sindacati e partiti di matrice socialista, laburista o cattolica avevano un forte insediamento sociale, che si traduceva in una cultura diffusa (che oggi passa sotto il titolo sprezzante di ideologia) e in atteggiamenti attraverso cui si esercitava una intensa partecipazione popolare, sia pratica che emotiva, alla vita politica. Ciò accadeva nei partiti e nelle loro organizzazioni collaterali assai più che nelle istituzioni, appannaggio esclusivo del ceto politico fin dagli anni del dopoguerra. Quel compromesso tra capitale e democrazia aveva comunque un risvolto economico nell’intervento pubblico, con l’industria di Stato, le aziende municipalizzate di servizi pubblici locali, una intensa politica “dirigista” e la progressiva generalizzazione dei principali istituti del welfare-state: istruzione, previdenza sociale e servizi sanitari e assistenziali.
Tutto questo sta scomparendo o non c’è già più. E con esso scompare la democrazia come l’abbiano conosciuta finora. Con la globalizzazione e la finanziarizzazione non è cambiato solo il capitalismo; è cambiata anche la composizione sociale della popolazione e con essa sono cambiati le culture e i comportamenti in cui si esprimono i suoi interessi. Soprattutto è cambiato l’orizzonte spaziale e temporale entro cui si sviluppano i conflitti sociali, che certo non mancano neanche ora: dall’Europa al mondo arabo, dalla Cina all’America Latina, dalla Turchia e dalla Bulgaria a Occupy Wall-Street; e così via.
Il nuovo orizzonte spaziale è dato dalla libera circolazione di merci e – via internet – di capitali e servizi che ha innescato processi di delocalizzazione che è ormai impossibile inseguire in termini organizzativi. Il motto “Proletari di tutto il mondo unitevi”, che già non aveva retto alle prove del ‘900, alla Grande guerra e alla frattura tra Seconda e Terza internazionale, oggi sembra irrealizzabile, se non, a volte, su politiche single issue.
Quanto all’orizzonte temporale, si è dissolto il futuro (“No future”, come aveva anticipato il movimento punk): nessuno crede più alle “magnifiche sorti e progressive”, al “sol dell’avvenire”, ma, in un regime di precariato ormai generale, nemmeno alla promozione sociale, alla “carriera”, o all’istruzione come ascensore sociale. Persino l’ecologia – un progetto di sostenibilità ambientale inscindibile da una maggiore giustizia sociale – viene percepita più come minaccia sulle nostre vite che come prospettiva di riscatto. E nemmeno il femminismo è per ora riuscito a imporre una revisione degli approcci alla trasformazione della vita sociale e politica.
Partiti e sindacati, con poche eccezioni, non sono più insediamenti sociali, ma, dove ancora resistono, sono articolazioni degli apparati istituzionali. La cultura del cambiamento è stata sommersa dallo tsunami della pubblicità, del consumismo e dell’entertainment che inchioda tutti al presente, dove ciascuno “fa parte per se stesso”.
Il panorama sociale che il capitalismo globalizzato e finanziarizzato si trova di fonte è dunque molto più frammentato, “liquido” e disperso di un tempo; e tuttavia è ricchissimo di fermenti e di iniziative nei campi più disparati. Ma la partecipazione alla vita delle istituzioni è ormai ridotta solo al voto, che coinvolge ogni anno sempre meno elettori, anche grazie all’opera di partiti sempre meno distinguibili uno dall’altro.
I vincoli imposti dall’economia del debito sono andati scaricandosi innanzitutto sui livelli salariali e occupazionali e sugli istituti del welfare-state, ma da tempo stanno investendo massicciamente anche gli enti locali, da sempre – e, in Italia, fin dalla nascita dei Comuni medioevali – incarnazione di una democrazia di prossimità. Lo strangolamento finanziario degli Enti locali, finalizzato alla cessione e privatizzazione dei beni comuni e delle funzioni più direttamente connesse alla vita quotidiana (acqua, trasporti, rifiuti, energia, scuole, edilizia, cultura, vivibilità, assistenza e prevenzione sanitaria), li svuota di ogni ragion d’essere, inducendo cittadini e lavoratori a non riconoscere alcun valore positivo a quella che viene presentata loro come democrazia.
Ma di fronte allo sfacelo economico e sociale a cui le politiche di austerità stanno spingendo l’Europa – con la Grecia che ne rappresenta in larga misura un destino comune – assistiamo agli albori di una nuova concezione della democrazia che si impone attraverso un’inversione di ruoli che trasforma gli “ultimi” in “primi”.
In Grecia – gli ultimi – la necessità di ricostituire legami di prossimità e reti di solidarietà finalizzate alle esigenze della sopravvivenza in campo alimentare, sanitario, abitativo, del riscaldamento, della mobilità, del reddito, ecc., crea le premesse per una ricomposizione in questi ambiti di una forza indispensabile per condizionare dal basso – e domani, forse, a controllare attraverso forme di democrazia partecipata e istituti della democrazia di prossimità – le scelte politiche nazionali ed europee. Non si tratta di soluzioni alternative alla democrazia rappresentativa, perché entrambe possono convivere. Ma è questa peraltro la strada imboccata anche in Argentina dal movimento della fabricas recuperadas e dal sostegno trovato nelle comunità territoriali di riferimento, proprio in presenza di un default che le autorità europee continuano a esorcizzare, pur sapendolo inevitabile; tanto da aver passato sotto silenzio i default parziali che per ben due volte hanno già imposto alla Grecia.
Ma quest’alternativa è un percorso imboccato di fatto, e per vie diverse, anche da quasi tutti i movimenti che hanno animato la scena politica e sociale negli ultimi anni. E’ una strada sottratta al dilemma tra Stato e mercato per imboccare, questa volta sì, una vera “terza via”: non il socialismo liberista di Blair, poi copiato da tutti i partiti della sinistra europea, che li ha portati allo sfascio, bensì la via dei commons, dei beni comuni, di un controllo condiviso – e conflittuale nei confronti di chi detiene le leve del potere economico e politico – sull’uso delle risorse del territorio e tanto sulle attività direttamente produttive come su quelle legate alla riproduzione; cioè su tutto ciò che, nel perseguire la sostenibilità ambientale, si configura in entrambi i casi come lavoro di “cura”: cura di sé, del prossimo e dell’ambiente.