Sommersi e affogati
Mentre due navi cariche di “carne umana”, cioè profughi, chiedevano da giorni che qualcuno in Europa si impegnasse a non restituirli all’inferno a cui erano appena sfuggiti e altri mille loro compagni di sventura erano stati invece appena catturati (a costo di quanti morti e dispersi non si saprà mai) dai predoni libici mascherati da “guardia costiera” – con navi, divise e assistenza tecnica fornite dall’Italia – nessuno dei capi dei governi europei, riuniti per discutere di nient’altro che di loro, ha sentito il bisogno di rispondere a quell’appello: dovevano affogare o venir restituiti ai Lager gestiti da quello Stato fasullo che essi stessi stanno tenendo in piedi. E a farsi carico del lavoro sporco doveva essere l’Italia, il cui esecrabile governo comunque lavora per loro.
Per anni il futuro e la sopravvivenza dell’Unione sono stati agganciati con pignoleria ai conti, al patto di stabilità, all’euro: tutte cose che non vivono di vita propria, che non funzionano nel vuoto. Se l’edificio economico costruito con quei mattoni si è dimostrato fragile, a smottare sono però le sue fondamenta: la coesione e la solidarietà tra gli Stati membri. E a metterne in luce l’inconsistenza sono le politiche antimigratorie.
Tutti i governi dell’Unione hanno paura dei migranti perché non sanno come affrontarli. Per fermarsi all’attualità, si va dalla tragedia della Svezia, che respinge in un paese che non hanno mai conosciuto, dove non hanno più casa né parenti, e nemmeno ne conoscono la lingua, centinaia di giovani afgani – perché il paese da cui sono arrivati i loro genitori, in guerra da 30 anni, viene considerato “sicuro” – alla ferocia dell’Ungheria (e dei governi associati nel patto di Visegrad) che, dopo averli fermati alla frontiera con reticolati, guardie armate, cani che azzannano i bambini, è passata alla persecuzione legale delle organizzazioni della solidarietà; dal grottesco presidente francese che fa massacrare alle frontiere i profughi che cercano di entrare nel suo paese (ma anche di uscirne, per raggiungere il Regno Unito) e poi dà dei lebbrosi (o dei vomitevoli) ai governi che cercano di fare quelle stesse cose; fino al ridicolo del governo olandese, che da anni vende agli evasori fiscali che non vogliono pagare le tasse sui propri yacht l’iscrizione al proprio registro navale, ma poi rinnega l’iscrizione – documentata e ineccepibile – della nave solidale Lifeline per paura di doverne accogliere il carico umano, come minaccia Salvini. Insomma, è un fuggi-fuggi generale.
Chi governa Stati dell’Unione dove non si può arrivare senza attraversarne altri, pensa solo a proteggere i “confini interni” dell’Unione (quelli che il trattato di Schengen avrebbe dovuto abolire) e a scaricare sugli Stati membri del confine “esterno” sia l’”onere” di respingerli per conto di tutti, sia quello di trasformarsi in discariche di un’umanità abbandonata e disumanizzata; e magari anche “restituire” loro, come fossero pacchi, quelli registrati nel paese di arrivo che sono riusciti a passare una frontiera “interna”: i cosiddetti “dublinati” (in questi anni l’Italia ne ha già “riaccolti” oltre 40mila, che non vengono dalla Libia, ma da Francia, Germania, Austria…). Il tutto in cambio del rafforzamento delle frontiere esterne: più forze congiunte di polizia, più navi a sbarrare la strada ai migranti, più hotspot, magari nelle ex colonie, qualche soldo in più da destinare a bande o dittatori africani perché se li tengano loro e ne facciano quello che vogliono (come con Erdogan; e i risultati si vedono).
Che si possa, o si debba, cambiare approccio rispetto a questa vera e propria guerra contro gli ultimi della Terra non viene nemmeno preso in considerazione. Perché in realtà ciò da cui i governi europei sono paralizzati non è la paura dei migranti – di cui non hanno alcun rispetto o timore, e che trattano come stracci – ma quella delle destre xenofobe e razziste, già saldamente insediate al comando di alcuni paesi membri, o in procinto di esserlo, e alle cui pretese non sanno contrapporre alcun progetto alternativo, ma solo misure fotocopia che ne riproducono la crudeltà, evitandone ipocritamente il linguaggio feroce, che è però ciò che fa le fortune elettorali di quei loro avversari.
Perché se la paura del migrante è la cifra comune delle politiche dei governi dell’Unione, ciò che sottrae loro l’elettorato, consegnandolo ai loro avversari politici, non è la paura ma l’odio; un sentimento molto più solido e difficile da “smontare”. La paura vera diffusa tra la “gente” comune, quella con cui l’Unione governa i suoi popoli da qualche decennio, è sempre la stessa: paura della crisi, del default, di perdere il lavoro, o la casa, o il reddito, o il proprio status: quel sentiment che si è andato sostituendo alla speranza e alle aspettative con cui era stato organizzato il consenso nei “trenta anni gloriosi” del dopoguerra. Nessuno, se non chi vive in completo isolamento, ha veramente paura dei migranti, degli stranieri, dei profughi, della “sostituzione etnica”, del “piano Kalergi”: tutti sanno quanto la maggioranza di quegli stranieri (quelli poveri, perché quelli ricchi sono sempre bene accolti) siano miseri e impotenti. Certamente molti provano fastidio per la loro presenza. Ma è stato offerto a tutti l’occasione di “prendersela”, di sfogare la propria rabbia e le proprie frustrazioni contro qualcuno o qualcosa che non può rispondere né reagire; mentre i veri responsabili delle loro paure sono troppo lontani, troppo indefiniti, troppo forti per riuscire anche solo a intaccarne il potere. Meglio, caso mai, prendersela con la “cricca”, il cui compito è quello di fare da testa di turco.
Così ci si compiace per la riduzione dei “flussi” intervenuta nell’ultimo anno; ma nessuno osa chiedersi dove sono finiti tutti coloro che non sono più arrivati. Sono in fondo al mare, o nei Lager libici gestiti dalle bande che l’Italia e l’Unione europea finanziano; o accampati a Lesbo o a Idomeni, a Ventimiglia o ai confini di Ceuta; o nei garage della Turchia dove bambini siriani producono l’abbigliamento di moda in Europa per mantenere i loro genitori il cui lavoro costerebbe qualche euro in più.
C’è dunque un fronte comune in guerra contro i migranti; un fronte che, al di là delle dichiarazioni di comodo e dei falsi distinguo, unisce e spinge in un‘unica direzione governi e opposizioni (con poche eccezioni), istituzioni e media, autorità e opinion leader; e dietro a loro, quote crescenti dell’elettorato. Ma proprio il non essere in grado di assumere la responsabilità di un problema destinato a crescere nel tempo e a cambiare il mondo e le vite di ciascuno è la loro debolezza. Di fronte a loro c’è un ”volgo disperso” di persone, comitati e comunità, certo per ora minoritario, deciso a non svendere la propria umanità e per questo impegnato a prestare soccorso tanto ai migranti che agli ultimi delle rispettive comunità, quale che sia la loro nazionalità; un arcipelago che non ha ancora trovato la strada per unirsi e per far sentire insieme la propria voce. La punta di diamante di questo potenziale schieramento sono oggi le Ong impegnate nel salvataggio degli uomini e delle donne di cui l’Europa cerca di liberarsi facendoli affogare. Ma hanno dalla loro parte una risorsa inesauribile, il rispetto per la vita e la dignità di tutti gli esseri umani; e la certezza che senza di esso nessuna soluzione realistica e accettabile potrà mai essere trovata. Per questo sono il nocciolo di ogni vero movimento di resistenza contro lo tsunami nero che sta investendo l’Europa.