Quale Europa?
Quale Europa vogliamo noi della lista L’altra Europa con Tsipras? L’abbiamo detto e scritto molte volte: vogliamo un’Europa democratica, federalista, solidale, ecologica, inclusiva, pacifica. Ora – ma in parte abbiamo già cominciato a farlo nei mesi scorsi – dobbiamo articolare questo programma.
Democratica: vogliamo una vera costituzione dell’Unione europea, con un governo a base parlamentare, autonomo dai poteri dell’alta finanza e in grado di definire le linee fondamentali della politica economica, sociale, ambientale e culturale; e vogliamo anche preservare l’impianto fondamentale della costituzione italiana e fermare la progressiva erosione dell’area di applicazione della democrazia promossa dal governo Renzi e da quelli che lo hanno preceduto. Ma siamo consapevoli che la democrazia rappresentativa non è più un ordinamento sufficiente a garantire i diritti della persona che sono andati maturando nel corso del secolo scorso se non viene affiancata e integrata da forme di democrazia partecipativa, capaci di investire progressivamente tutte le aree della vita quotidiana: a partire dal lavoro, ma senza trascurare i servizi pubblici, locali e non, l’ambiente, la gestione del territorio e dei beni comuni, la cultura, la salute, l’istruzione e tutto il resto. La democrazia partecipativa (e queste osservazioni valgono anche per il dibattito sulla democrazia all’interno della nostra aggregazione) non è democrazia diretta; ammette la delega, sia con vincolo di mandato che senza, purché il mandato sia revocabile in ogni momento; non prevede, nella misura del possibile, votazioni a maggioranza se non sugli ordini del giorno delle riunioni e richiede un impegno diretto di chi vi partecipa – la cittadinanza attiva – alla gestione delle iniziative, delle lotte o delle attività nei confronti delle quali si esercita. La partecipazione diretta della cittadinanza attiva alla gestione di una risorsa, di un servizio o di una attività, o la rivendicazione condivisa di questa partecipazione, è ciò che li definisce come beni comuni.
Federalismo non deve essere inteso come un rapporto tra Stati, ma come una rivalutazione radicale dei poteri e delle autonomie locali; innanzitutto quelle dei Comuni o delle unioni o associazioni di piccoli Comuni (di ciò che chiamiamo il “territorio”), che sono la componente dell’ordinamento statuale più vicino ai cittadini e in cui è più facile – o meglio, meno difficile – dare vita a forme di democrazia partecipativa.
Solidale vuol dire che gli Stati, le nazioni e i paesi membri dell’Unione devono condividere oneri e responsabilità di un processo orientato all’equilibrio e alla parità di condizioni tra tutti; alla condivisione dei costi e dei benefici del cammino comune; in particolare, occorre perseguire la condivisione dei debiti pubblici, il livellamento dei tassi di interesse e dell’imposizione fiscale, una distribuzione equa degli investimenti comuni. Questo approccio include anche, seppure in forme meno dirette, la solidarietà nei confronti delle altre aree geografiche del pianeta e di tutti gli altri paesi del mondo, a partire da quelli rimasti ai margini dei benefici – ma non dei costi – dello sviluppo industriale ed economico. Ma solidarietà vuol dire anche e soprattutto giustizia sociale all’interno di ogni paese e area geografica; redistribuzione del lavoro, del potere contrattuale, del reddito, degli oneri fiscali, dell’istruzione, dei presidi sanitari; insomma, dei diritti. Senza escludere la solidarietà nei confronti di tutto il vivente e della natura (la “madre Terra”). Ma anzi, facendone un punto centrale del nostro programma.
E’ questo infatti il quadro di riferimento di ogni progetto ecologico, che deve fare i conti con quella “seconda natura” in cui da tempo è collocata l’umanità: non solo quindi con la natura prodotta dall’evoluzione geologica della crosta terrestre e da quella biologica del vivente, ma anche con quella nostra “natura” che è stata prodotta dalla rivoluzione industriale, dall’avvento dei materiali di sintesi, dalla proliferazione dei prodotti e dei rifiuti – solidi, liquidi e gassosi – generati dalla civiltà dei consumi. Perché in essi e con essi le leggi che presiedono al mondo del vivente – e alla vita umana su questa Terra – continuino a poter operare pienamente e si possa ritrovare un equilibrio fra questi due mondi – quello “naturale” e quello “artificiale” – che restituisca al primo le condizioni per non essere soffocato dal secondo. Tutto ciò riguarda tanto gli impegni dell’Unione europea nel campo delle convenzioni internazionali da cui dipende la salvaguardia degli equilibri climatici e l’integrità dei mari, dei suoli, delle acque della biodiversità, ecc. – un terreno da cui l’Unione, dall’inizio della crisi, si è progressivamente disimpegnata – quanto la difesa di ogni singolo territorio dall’inquinamento locale e dalla manomissione dei suoi assetti.
Inclusiva significa che l’Europa deve cessare di essere vissuta e governata come una “fortezza” sotto assedio da parte di una ”armata” di profughi e migranti alla ricerca di condizioni di vita migliori o addirittura della propria sopravvivenza. In un’Europa solidale, che pratica la giustizia sociale e ambientale, ci deve essere posto per tutti; anche perché l’emarginazione, la clandestinità, la discriminazione razziale – anche quella non più fondata su basi biologiche, ma culturali, che in parte l’ha sostituita; e soprattutto quella che si esercita in forme sempre più marcate contro i poveri e la povertà – sono calamite che non fanno che produrre più emarginazione, più clandestinità, più razzismo, più povertà: in una spirale che ha il suo punto di approdo in uno stato permanente di belligeranza senza sbocchi. L’accoglienza pone invece le premesse per un diverso rapporto con le popolazioni, e a volte anche con le istituzioni, dei paesi di origine dei profughi e dei migranti; un rapporto che può facilitare la composizione dei conflitti che ne hanno determinato l’esodo, o una circolazione di competenze e di relazioni che possono arricchire sia i paesi di origine che quelli di arrivo. Ma l’inclusione vale anche nei confronti di tutte le minoranze e di tutte le forme di diversità e di scostamento dalla norma – che, messe tutte insieme, costituiscono ormai da tempo la vera maggioranza sociale e una condizione permanente di ogni territorio – che interpella innanzitutto, prima di mettere sotto accusa idee e comportamenti altrui, le nostre concezioni e il nostro stile di vita quotidiano.
Pacifica non può voler dire solo impegnata a garantire la pace al proprio interno mentre ai suoi confini imperversano i conflitti più sanguinari – e più pericolosi per la sopravvivenza stessa del genere umano. Vuol dire mettere l’Europa in condizione di poter avere un ruolo attivo nella composizione dei conflitti armati altrui; specie quelli che sono il prodotto più diretto di una difesa oltranzista – e, alla fine, suicida – dei propri interessi, come quelli determinati dalla corsa al controllo delle riserve petrolifere, o quelli alimentati da un’esportazione di armi che risponde esclusivamente alla logica del “business is business”. A livello locale, un’Europa pacifica deve significare attenzione verso tutte quelle attività economiche che in vario modo concorrono ad alimentare quei conflitti armati; e capacità di proporre soluzioni di conversione ecologica per quelle imprese e quella occupazione che ne dipendono.
Ora se queste o altre considerazioni simili rappresentano un primo livello di esplicitazione del nostro programma, è chiaro che la sua ulteriore articolazione non può procedere in forma deduttiva – entrando sempre più nei particolari per una sorta di logica interna agli enunciati fondamentali – ma solo in forma induttiva: mettendo questi principi alla prova dei fatti nei territori o negli ambiti di intervento di ciascuna delle aggregazioni locali che a livello nazionale fanno capo alla nostra lista (o ex-lista). Ma per farlo bisogna evitare di chiudersi in se stessi quasi fossimo un’entità autosufficiente o anche solo parzialmente compiuta, mentre occorre il massimo di apertura del nostro operare: in due direzioni.
Innanzitutto, nel corso della breve esistenza di questo progetto non abbiamo raccolto – sia in termini di adesioni attive che di consenso – che una piccola parte di quel fervore di attività che contraddistingue da anni il nostro paese e che lo rendono assai più vivo e ricco di buone pratiche e di importanti esperienze in termini di analisi, di progettualità e di elaborazioni programmatiche di quanto si riscontra in altri paesi europei, dove pure il conflitto sociale è stato ed è più visibile e più facilmente inquadrabile in termini politici. E’ con queste realtà che ogni nucleo, o nodo, o comitato locale della nostra aggregazione deve cercare di confrontarsi e di prendere iniziative comuni. Per farlo, più che di assemblee generali – locali, o generali, o nazionali – che rischiano di rimescolare sempre le stesse carte, occorre che ci organizziamo, innanzitutto a livello locale, per gruppi di lavoro o per commissioni tematiche. Per fare qualche esempio: difesa del territorio; lotta contro le grandi opere e i grandi eventi (che ne è una specificazione, ma anche un tema assai più complesso); Costituzioni (europea e italiana) e istituzioni (leggi elettorali, poteri locali, patti di stabilità interni ed esterni, TTIP); conversione ecologica del tessuto produttivo e delle aziende in crisi; questione energetica; altra economia (GAS, DES, cooperative sociali, fabbriche occupate, luoghi di socializzazione alternativi, ecc.); diritti e conflitti del lavoro; precariato; pace, ecc. Ma si possono ipotizzare suddivisioni e aggregazioni di temi del tutto differenti. L’importante è che ciascuno di questi raggruppamenti, oltre a promuovere collegamenti nazionali e internazionali (avvalendosi, in questo caso, della nostra presenza nel parlamento europeo e della nostra appartenenza al GUE) sui temi di proprio specifico interesse – ma senza rinchiudersi in una prospettiva settoriale e specialistica – vada alla ricerca dei molti possibili interlocutori, singoli e organizzati, che operano nel rispettivo territorio e che sono stati finora coinvolti solo marginalmente, o per nulla, dalla nostra mobilitazione elettorale; promuovendo con questi un confronto e delle iniziative comuni su un piano di assoluta parità. Questo significa che nel lavoro di articolazione, approfondimento e ulteriore elaborazione di un programma comune attraverso pratiche e iniziative condivise o attraverso lotte e mobilitazioni promosse o sostenute congiuntamente, questi nostri interlocutori debbono aver voce al pari di noi (cioè al pari di chi ha già partecipato alle forme organizzate della lista L’altra Europa). Ciò comporta non solo includere o integrare o modificare taluni aspetti dei nostri punti di partenza (quelli contenuti nell’appello iniziale e poi nei “dieci punti” redatti da Barbara Spinelli); ma anche, eventualmente, in alcuni casi contraddirli. Ma sicuramente arricchirli con una molteplicità di esperienze pratiche condivise attraverso cui il nostro programma si fa, da mera enunciazione, pratica politica quotidiana.
L’altra direzione in cui dovrà svilupparsi la nostra iniziativa è il consolidamento culturale – e perché no? teorico – di quanto saremo in grado di sviluppare con la pratica. Non tanto per merito nostro, quanto per la miseria che contraddistingue ormai da tempo la totalità della politica italiana, intorno al progetto che ha messo capo alla lista L’altra Europa si è andato raccogliendo in pochi mesi il meglio dell’intelligenza italiana. Non c’è bisogno di fare nomi, anche perché sono tantissimi. Finora non abbiamo saputo o potuto valorizzare granché questi apporti; ma ora, usciti dall’emergenza della campagna elettorale, dobbiamo saper offrire a tutti questi nostri interlocutori un terreno di confronto con le nostre pratiche: non per cercare di trasformarli in “intellettuali organici” al nostro progetto; bensì per dare ad esso, nella più assoluta libertà di ciascuno, quel respiro e quella larghezza di vedute indispensabili per affrontare un compito da cui non possiamo prescindere: promuovere la rifondazione, su nuove basi, di una cultura della democrazia che abbracci tutti gli aspetti della vita quotidiana e tutte le pieghe della società. Nessun’altra organizzazione in Europa può contare su un apporto di intelligenze e di impegno civile paragonabile a quello di cui possiamo avvalerci noi. E questo restituisce anche alla nostra piccola rappresentanza parlamentare un peso che il numero ridotto dei suoi membri non le consentirebbe altrimenti di avere.
Anche questa seconda direzione, che è quella della riconquista di un’egemonia culturale indispensabile per garantire un difesa e un sostegno adeguati ai diritti della persona (“prima le persone”), richiede da parte nostra il massimo di aperture, anche in termini organizzativi. Abbiamo davanti a noi due modelli, per ora embrionali, ma che ne svelano le grandi potenzialità: innanzitutto la costituente dei beni comuni che ha visto il concorso del meglio della dottrina giuridica italiana intorno ad alcune iniziative pratiche di occupazione e di lotta come quella del Teatro Valle di Roma e del Municipio dei Beni comuni di Pisa; poi, anche se con un esito più contestato, anche perché ha investito in pieno una difficile sfera istituzionale, la creazione dell’Azienda speciale Acqua Bene Comune di Napoli, come prima traduzione pratica degli obiettivi dei referendum del 2011.
Va da sé che un approccio come quello qui delineato ha bisogno di strumenti e strutture di coordinamento: un sito, una presenza molto ben controllata sui social network, un ufficio stampa che promuova la nostra presenza sui media e – perché no? – in prosieguo di tempo, un giornale o una rivista on line o cartacea; o una radio. E ha bisogno di denaro, che forse la nostra piccola affermazione elettorale ci potrà mettere a disposizione in misura leggermente maggiore della miseria che abbiamo conosciuto finora. Certamente ha anche bisogno di incontri e riunioni fisiche periodiche e di qualcuno, possibilmente a rotazione, che le convochi, le coordini o vi partecipi, evitando però la creazione di strutture troppo pesanti, che poi è difficile ridimensionare.
Ma è implicito che questo approccio ha un bersaglio polemico in qualcosa che si aggira nelle nostre riunioni e nelle nostre comunicazioni come uno spettro. Questo qualcosa è il nuovo “soggetto politico”, o il “soggetto politico nuovo”, a volte declinato in una più indeterminata “soggettività politica”, ovvero in una “costituente della sinistra”, per non parlare di chi propone senz’altro di “fare un partito” e ne fissa anche i tempi di fondazione. Ho più volte messo in guardia in passato, nell’ambito della mia militanza nel gruppo Alba, dai rischi impliciti nel ricorso al termine soggetto e ai suoi succedanei. E’ un termine che apparentemente esalta l’iniziativa e l’autonomia di un agire comune, ma che in realtà finisce spesso per rinchiuderlo in qualcosa di solido, di sostanziale, di autosufficiente, soprattutto quando non è riferito ad alcunché di presente, ma a una meta da raggiungere in tempi più o meno certi. In altre parole, e ne abbiamo davanti agli occhi un bell’esempio nei nostri scambi di mail dell’ultimo mese, rischia di distogliere il nostro dibattito politico dall’impegno a sviluppare nella pratica quotidiana il tema dell’Europa che vogliamo (nei termini in cui l’ho delineata sopra), dell’Italia che vogliamo o, più in generale della società che vogliamo. Non sto parlando del “sol dell’avvenire” in cui ritengo che nessuno di noi creda più, per lo meno nei termini in cui ha funzionato come motore politico delle lotte del movimento operaio nel secolo scorso, e anche prima. Parlo di una visione del futuro che vede il conflitto e la partecipazione, variamente intrecciati tra loro, come componenti permanenti di una dinamica sociale in cui a ogni generazione tocca fare i conti con le acquisizioni e le sconfitte di quella precedente. Si rischia così di confinare il nostro dibattito al tema di come costruire il nuovo soggetto, o il nuovo partito, o la nuova sinistra, sottintendendo che la individuazione e la definizione delle modalità attraverso cui trasformare con la pratica quotidiana i rapporti sociali ne discendano automaticamente; o comunque vengano “dopo”. E trascurando, per di più, la dimensione europea e internazionale in cui fin dall’inizio abbiamo voluto collocare la nostra iniziativa. Per cui il discorso sulle pur necessarie iniziative da prendere, anche in termini organizzativi, per non disperdere quanto è stato realizzato nel corso dell’esperienza che abbiamo fatto insieme con la lista L’altra Europa rischia di assorbire e risucchiare in un buco nero tutto il resto.