Modelli di sviluppo [Contributo al libro “Grammatica dell’indignazione, a cura di Livio Peppino e Marco revelli, Edizioni Abele]
La crisi economica globale è ormai giunta al suo settimo anno senza sostanziali accenni di ripresa – esclusi alcuni ridotti alti e bassi che hanno interessato o interessano un numero ristretto di paesi – e soprattutto senza che gli andamenti positivi o meno negativi di alcune economie si riflettano sulle condizioni di vita e di lavoro della maggioranza delle popolazioni interessate. Per questo dobbiamo abituarci a considerare lo stato di crisi una condizione permanente con cui ci toccherà convivere nei prossimi anni e decenni: anche tenendo conto delle cosiddette economie emergenti, nessuna nuova fase di grande espansione e di crescita complessiva del “benessere” è alle viste, se non per la ristrettissima cerchia dei ricchissimi (il famigerato 1 per cento della popolazione mondiale) che di questa crisi è la diretta beneficiaria, mentre le condizioni di vita e di lavoro – quando il lavoro c’è – della maggioranza della popolazione (il rimanente 99 per cento) rischiano una continua corsa verso il basso.
La crisi è di fatto la modalità assunta dal comando del capitale nella fase della sua “finanziarizzazione”; la manifestazione permanente di quella “economia del debito” (debito delle famiglie, delle imprese, delle banche, degli Stati) che nel corso degli ultimi tre decenni è andata progressivamente a impiantarsi – fino a dominarla completamente – sulla struttura produttiva, economica e sociale che aveva retto le sorti del mondo occidentale e industrializzato nei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale (i cosiddetti “trent’anni gloriosi”; anche se di “glorioso” c’era poco o niente). Poco per volta e quasi inavvertitamente, la crisi ha trascinato con sé, affondandoli, i tratti fondamentali dell’epoca che l’aveva preceduta: innanzitutto la grande industria fondata sui grandi impianti industriali di matrice fordista, sostituita da processi di decentramento e di delocalizzazione che hanno frantumato la continuità e la coesione dei cicli produttivi: se il simbolo dell’era fordista era l’industria dell’auto a ciclo integrato costruita intorno alla catena di montaggio – General Motors, Fiat, Volkswagen, ecc. – su cui si era sostanzialmente modellato tutto il resto del mondo produttivo, compresa la piccola impresa, la burocrazia statale e l’esercito, a simbolo della nuova era può essere assunta la grande catena distributiva (Walmart, Auchan, Coop, ecc.) che fa da modello a tutto il resto del sistema delle imprese: un marchio e una immane rete di vendita contrassegnata da lavoro precario, bassi salari e ritmi infernali, che rastrella giorno per giorno il reddito dei consumatori e distribuisce i propri acquisti in tutto il mondo, tra una miriade di fornitori e subfornitori tenuti sotto il ricatto permanente di perdere la commessa, per indurli a estrarre dai propri dipendenti quanto più lavoro possibile al costo minore possibile. In più, incassi in contanti e pagamenti a 30-60-90 giorni: un immane polmone di liquidità da investire nelle operazioni più spericolate, che fa di questa tipologia di impresa uno dei protagonisti della grande finanza. Alla frantumazione dei cicli produttivi non corrisponde comunque una maggiore autonomia delle aziende fornitrici; bensì una maggiore concentrazione del potere e dei processi decisionali nel sistema finanziario che le controlla e le taglieggia. La globalizzazione non opera quindi solo in senso orizzontale, unificando in un unico mercato tutto il pianeta, ma anche e soprattutto in senso verticale: aumenta il potere dei pochi uomini al comando dell’alta finanza, tanto potenti da condizionare la politica di Stati e Governi, soprattutto attraverso il controllo del loro debito; ma anche in maniera diretta (attraverso il cosiddetto sistema delle porte girevoli: lo scambio di funzioni tra ceto politico e manageriale) o con varie forme di corruzione. All’altro capo della catena di comando, la precarietà delle imprese subordinate ai poteri della finanza si traduce in precarietà del lavoro: smantellamento del potere dei sindacati, degli istituti contrattuali e delle relative garanzie, assunzioni a termine, lavoro precario, lavoro nero e dipendenti trasformati in “imprenditori di se stessi”: tutti responsabili “di ultima istanza” di quello che succede loro, di quello che succede all’azienda che li impiega, di quello che succede al sistema economico che si regge sul loro lavoro. Mentre la precarietà dei Governi e degli Stati, i cui bilanci sono ormai sotto il controllo del sistema finanziario con cui si sono volontariamente indebitati, si traduce in un progressivo smantellamento degli istituti del welfare (pensioni, istruzione, sanità. cultura) e in svendita del patrimonio pubblico (servizi di rete, una volta tutti in mano pubblica; servizi pubblici locali e beni comuni) per far fronte, con incassi sempre più miseri, alle scadenze del debito. Sullo sfondo di questi processi c’è la rinuncia, da parte dei Governi e di tutti i partiti che li esprimono, a perseguire una politica industriale autonoma: a decidere che cosa produrre, quanto e con che mezzi garantire la mobilità, da che fonti ricavare l’energia, in che direzione orientare coltivazioni e alimentazione, dove costruire e con che fondi, quanto e come studiare e curarsi devono essere “i mercati”, cioè la finanza: non in base alle necessità dei più, ma in base alle prospettive di profitto di un numero infimo di padroni del mondo. Il rovesciamento delle tante aspirazioni e delle poche o molte conquiste del ‘900 è così compiuto e con esso si disseccano e si dissolvono le forme di democrazia rappresentativa che il secolo scorso aveva faticosamente costruito.
Sullo sfondo della crisi economica e sociale e ad essa direttamente connessa c’è la crisi ambientale che ha ormai investito tutto il pianeta e che rischia ogni giorno di più di arrivare a un punto di non ritorno. Della crisi ambientale il rischio maggiore è costituito dai cambiamenti climatici indotti dal consumo di combustibili fossili a cui l’establishment finanziario al potere è ferocemente attaccato; perché è lo strumento più diretto di controllo e di condizionamento di tutti i processi economici e di tutta la vita sociale del pianeta. Ma non è l’unico rischio che corriamo. Ad esso si aggiungono la crisi idrica (nei prossimi decenni l’acqua sarà oggetto di una competizione violenta – soprattutto tra spinte alla condivisione del bene e volontà di appropriarsene per trarne profitto – e di molte guerre locali), la distruzione irrecuperabile di molta biodiversità, la spoliazione del suolo fertile con asfalto, cemento, fertilizzanti e pesticidi chimici, l’inquinamento delle acque, dell’aria e dei suoli con montagne di reflui, di emissioni e di rifiuti non biodegradabili, l’esaurimento delle risorse ittiche e minerarie, e tante altre cose. La crescita della produzione non trova più nelle risorse naturali una campo di espansione libero e illimitato come è stato per migliaia di anni e soprattutto nell’epoca successiva alla rivoluzione industriale; e per questo deve ricorrere alla finanza (che è creazione di denaro per mezzo di altro denaro) e alla spoliazione della maggioranza della popolazione per garantirsi i profitti che ritiene adeguati. Soltanto radicandosi in un processo di rientro entro i margini della sostenibilità ambientale l’economia, la produzione e i consumi potranno tornare ad alimentare occupazione, reddito, qualità della vita per coloro su cui oggi ricadono i costi più pesanti della crisi.
Tutto si tiene e per cambiare rotta occorre una revisione radicale dei meccanismi che regolano l’economia e la società: le mezze misure non servono se non si blocca e non si inverte il meccanismo infernale che ci ha portato a questo stato permanente di crisi. E tuttavia il cambiamento non sarà un evento unico e improvviso, ma il lento risultato di un conflitto destinato a durare nel tempo. Ho proposto, ispirandomi al pensiero di Alex Langer, di chiamare questa inversione di rotta “conversione ecologica”, per sottolinearne sia la dimensione soggettiva (un mutamento profondo del nostro stile di vita e dei nostri consumi), sia quella oggettiva: una profonda revisione di quello che si produce, delle risorse utilizzate per produrlo, dei modi in cui lo si produce, dei destinatari di questa produzione e, soprattutto, del dove lo si produce. Il che mette in causa il problema di chi prende le decisioni sull’intero ciclo produttivo: l’alta finanza, i Governi di Stati ed economie ad essa completamente subordinati, i lavoratori di ogni singola impresa oppure le comunità dei territori in cui quelle imprese sono insediate? E mette del pari in discussione la concezione stessa della democrazia: è una cosa che riguarda solo le istituzioni dei governi locali, nazionali e transnazionali oppure ne deve entrare a far parte anche la gestione delle imprese e il governo delle comunità che vivono del lavoro che in esse si svolge? In altri termini, come deve configurarsi una politica industriale capace di fare i conti con le cause ultime della crisi economica e della crisi ambientale? Chi sono gli attori che devono definirla e metterla in pratica? E come tradurre in un programma di trasformazione sociale le tante forma di indignazione che gli sviluppi della crisi hanno suscitato?
La sostenibilità ambientale, l’orizzonte ecologico in cui devono inserirsi le decisioni di tutti coloro che intendono contrastare e combattere le scelte che ci hanno portato a vivere in questo stato di crisi permanente e a correre i rischi ambientali che sovrastano il pianeta ci forniscono anche alcune risposte. Occorre promuovere e sviluppare non uno, ma tutta una serie di conflitti radicali con i responsabili dello stato di cose presente e questi conflitti devono alimentarsi e combinarsi con un livello sempre più alto di partecipazione da parte di chi è stato finora escluso da quelle decisioni. D’altra parte qualsiasi forma di partecipazione ai processi decisionali non è realizzabile se non in un quadro di conflittualità crescente con chi ha interesse a escludere la maggioranza della popolazione dalle scelte che ne determinano le condizioni di vita e di lavoro. Conflitto e partecipazione sono tra loro inscindibili e costituiscono l’orizzonte del mondo in cui ci troveremo sempre più spesso a operare. La direzione di questo cambiamento è chiara: in tutti i campi si tratta di passare da un mondo dominato dalla concentrazione dei poteri, dai grandi gruppi finanziari e dalle grandi imprese, dagli Stati che ne eseguono centralisticamente gli ordini, a un sistema di poteri, di impianti, di imprese, di attività, diffusi, differenziati, adattati alle caratteristiche di ogni territorio e di ogni comunità, ma non isolati tra loro, perché collegati da un sapere condiviso, reso possibile dalla estensione planetaria dell’istruzione e dalle potenzialità delle reti di telecomunicazione. Prendiamo il caso dell’energia: si tratta di passare dai grandi impianti legati allo sfruttamento dei combustibili fossili – grandi miniere, campi petroliferi e metaniferi, oleodotti, gasdotti, flotte petroliere, carboniere e metanifere, grandi raffinerie, grandi centrali termoelettriche, gradi reti di vettoriamento dell’energia (e quindi grandi investimenti, grandi capitali, grandi società, grande centralizzazione dei poteri; e guerre per accaparrarsi le risorse) – a un’impiantistica diffusa sul territorio, differenziata a seconda delle risorse locali (le fonti rinnovabili sono molteplici) e dei carichi energetici da servire, e a un’efficienza energetica basata sulle caratteristiche specifiche di ogni utenza: tutte cose che richiedono la mobilitazione di saperi diffusi sul territorio (sono processi che non si possono governare dall’alto o da un centro) e, quindi, un altissimo livello di partecipazione democratica. Lo stesso vale, a maggior ragione, per ambiti come l’agricoltura, l’alimentazione, la mobilità, la salvaguardia del territorio, l’edilizia, il recupero di risorse dagli scarti dei processi di produzione e consumo.
Ma è il dove produrre ciò che mette radicalmente in discussione i processi di conversione ecologica della produzione e della società. L’economia attuale è fondata su una competitività illimitata a livello globale che spinge verso il basso, verso il sempre peggio, le condizioni di vita e di lavoro della maggioranza della popolazione. La globalizzazione liberista non è altro che questo: i capitali si spostano dove i livelli salariali, la sicurezza dei lavoratori e la protezione dell’ambiente sono di volta in volta al minimo; chi resta senza lavoro e senza reddito a causa di queste delocalizzazioni – che ormai non riguardano più solo il mondo occidentale, ma anche la Cina e tra un po’ l’India, il Brasile, il Sudafrica e così via, finché la Grecia, e poi una parte crescente dell’Europa non saranno state messe nella condizione di attrarre capitali “grazie” a una situazione ormai disperata delle relative popolazioni – deve adeguarsi pena una completa emarginazione. I padroni del mondo non soffriranno se la Grecia, o l’Italia, o qualche altro Stato dell’Unione Europea o degli USA piomberà in una condizione che una volta si diceva “da terzo mondo”: continueranno ad avere le loro ville, i loro panfili, i loro aerei, i loro paradisi fiscali e turistici in giro per il mondo.
La conversione ecologica richiede che produzione e consumo o, meglio, generazione, rigenerazione e utilizzo dei beni e dei servizi si avvicinino tra loro il più possibile – anche, ma non solo, in senso fisico e geografico – attraverso accordi diretti tra chi lavora e chi utilizza i frutti di quel lavoro: è la cosiddetta riterritorializzazione dell’economia, che non è autarchia, non è protezionismo, ma è co-progettazione del sistema di vita e del lavoro di una comunità. Una comunità di dimensioni variabili: in ogni singolo ambito si potrà promuovere tanta prossimità quanto le tecnologie e le opportunità offerte dal territorio consentono; forse molto ridotta nei campi energetico (fonti rinnovabili differenziate), alimentare (agricoltura a km 0), del recupero (riciclo integrale dei rifiuti), dell’edilizia e del riassetto del territorio; sicuramente più ampia in campo industriale e certamente di dimensioni planetarie nel campo dei saperi, dove a viaggiare e a venir diffusi non sono gli atomi ma i bit. Questa non è l’abolizione del mercato, ma il suo trasferimento, certamente parziale e soggetto a continue revisioni, nell’ambito di una negoziazione che tenga conto non solo dei costi esternalizzati (quelli non considerati oggi dalle imprese che scaricano gran parte dei loro costi effettivi sull’ambiente e sulla società), ma anche e soprattutto di priorità e convenienze decise in forme partecipate.
Tutto ciò mette radicalmente in discussione le sperequazioni che da sempre caratterizzano molte delle formazioni sociali che si sono succedute nel tempo e soprattutto il capitalismo; sperequazioni che il passaggio dal sistema di produzione fordista – e dall’approccio keynesiano ai problemi economici – alla fase attuale di finanziarizzazione dell’economia hanno enormemente dilatato. La conversione ecologica – un processo che rimette al centro gli interessi e i bisogni di miliardi di uomini compressi e disattesi da un pugno di “padroni del mondo” – è inscindibile da un cammino verso un abbattimento crescente di queste sperequazioni: giustizia ambientale (verso la Terra) e giustizia sociale (tra gli umani) sono due facce dello stesso percorso.
Se tutto ciò è vero, un progetto politico di trasformazione della società orientato alla sostenibilità ambientale deve saper prendere le distanze dagli ideali che hanno dominato i conflitti sociali e la lotta di classe del secolo scorso almeno quanto le forme di dominio assunte dal capitalismo finanziario di questo secolo si differenziano da quelle che hanno caratterizzato il panorama produttivo e politico dell’era fordista e quanto la crisi ambientale mette in crisi l’illusione di una crescita illimitata della produzione e dei consumi. Se vogliamo tentare un primo confronto tra l’orizzonte delineato dalla conversione ecologica – che non è un’idea molto distante da quella definita, in altri ambiti semantici, dai concetti di decrescita, o di economia stazionaria, o di buen vivir, o di giustizia sociale e ambientale – e l’orizzonte che ha dominato il conflitto di classe nel corso del secolo scorso, sotto le insegne del socialismo, del laburismo o del comunismo, alcune considerazioni sembrano d’obbligo.
Un processo fondato sulla combinazione di conflitto e partecipazione non ha, nell’orizzonte che ci è dato di prospettare, un punto di approdo definito, uno stato di compiuta rappacificazione con la Terra e tra gli umani. Il conflitto potrà – si auspica – essere condotto in condizioni più favorevoli a chi oggi ne è la vittima, e la partecipazione potrà offrire a tutti una maggiore ricchezza in termini di relazioni umane, di accesso al sapere, di affetti, di autonomia e di dignità della persona; ma si sono dissolti per sempre, credo, il sogno di un “paradiso socialista”, la prospettiva di una società senza classi e senza conflitti di classe, la pretesa del socialismo “scientifico” di condurci fuori dalla “preistoria”, cioè da qualsiasi forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo (e ora anche della natura) da parte dell’uomo; e ce ne sono tante, e anche di sempre nuove. Per questo dobbiamo riuscire ad attribuire anche e soprattutto al presente, alla vita e alle lotte qui e ora, tutto il valore che spetta loro in quanto forme di un diverso modo di vivere e di concepire la vita. La condizione in cui dobbiamo saper ricollocare le nostre esistenze è quella di una società in crisi permanente, che sarà sempre conflittuale e dove la partecipazione dovrà ogni volta essere ricostituita su nuove basi. In altre parole, nel confronto che aveva contrapposto Bernstein e Kautsky la conversione ecologica sta con il primo: il movimento è tutto; e il fine è nel movimento stesso. O, se vogliamo, sta con Marx, per il quale il comunismo è il movimento reale che abolisce [ogni volta di nuovo, aggiungo io] lo stato di cose presente.
In secondo luogo, socialismo e comunismo, in tutte le loro versioni sono state comunque concezioni indissolubilmente fondate sul produttivismo, sul principio di affidare allo “sviluppo delle forze produttive” le basi materiali di una emancipazione dell’umanità; l’ecologia, invece, ricerca una conciliazione tra l’attività umana e l’ambiente che subordina la produzione al rispetto degli ecosistemi: sia a livello locale che globale.
Poi il socialismo e il comunismo – nella sua applicazione storica, sicuramente distorta – sono incontrovertibilmente legati a una dimensione nazionale (“il socialismo in un solo paese”, anche se solo come stadio verso l’internazionalizzazione del conflitto) e individuano nel potere dello Stato la leva fondamentale della trasformazione sociale, pacifica o violenta che sia; mentre per l’ecologia è giocoforza procedere “a macchie di leopardo”, soprattutto a livello locale, anche se l’ecologia individua negli accordi internazionali, purtroppo quasi mai rispettati, una potente leva di trasformazione.
Inoltre il socialismo, nella sua evoluzione, è indissolubilmente legato al processo di concentrazione della produzione in grandi stabilimenti da cui è discesa la creazione di quel proletariato industriale – la “classe operaia” – eletto a protagonista del rovesciamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. L’ecologia, anche se volesse, non può più contare su un soggetto del genere; deve fare i conti con la dispersione e la moltiplicazione delle figure sociali e professionali del nostro tempo e cercare soprattutto nella ricomposizione di comunità locali in rapporto con i loro territori e i loro beni comuni le forze con cui costruire una prospettiva di trasformazione sociale e ambientale. A promuovere la transizione non sarà quindi un soggetto monolitico, ma una rete di iniziative differenti e diffuse.
Il socialismo ha poi visto nella concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani di un numero ristretto di grandi corporation -che di fatto abolivano le regole del modello liberista di un mercato concorrenziale – una prefigurazione, ancorché parziale e distorta, di una pianificazione centralizzata dei processi economici. L’ecologia vede invece le radici del cambiamento in una progressiva diffusione e differenziazione di impianti e strutture di piccole dimensioni su cui maestranze e comunità locali possano esercitare forme di controllo diretto e partecipato, rapportandosi tra loro attraverso processi negoziali che non cancellano il mercato – cioè la contrattazione delle condizioni dello scambio – ma non lo sottomettono a quella competizione senza limiti che, attraverso i diversi livelli di subordinazione tra le imprese, finisce sempre per scaricarsi sulle condizioni di chi lavora e/o ne subisce l’impatto economico, sociale e ambientale.
Infine il socialismo e il comunismo “realizzato” vedevano nella proprietà pubblica intestata allo Stato e ai suoi organi la condizione di una estensione universale dei diritti sociali e l’alternativa al dominio del capitale fondato sulla proprietà privata. Il nuovo secolo ha ormai verificato che la proprietà pubblica non costituisce di per sé una reale alternativa a quello sfruttamento del lavoro e della socialità intrinseco alla proprietà privata dei mezzi di produzione. Entrambe sono forme di appropriazione di ciò che può e deve essere condiviso, e le cui condizioni di condivisione possono risiedere solo in un continuo rafforzamento, in forme conflittuali, dei processi di partecipazione alla sua gestione da parte delle comunità interessate: la sostanza stesa di ciò che si intende per “beni comuni”.