Io temo la «democrazia» di Marco Minniti
«Aiutiamoli (a crepare) a casa loro»: perfetta unità sulla questione profughi e migranti delle tre forze che si contendono il controllo politico del paese, Pd, destra e 5stelle.
Condivido i timori del ministro Minniti per «la tenuta democratica del paese»; è ora di prenderne
atto. Solo che a creare questa drammatica situazione hanno contribuito in modo sostanziale lo stesso
ministro, la sua politica, il suo partito e il governo di cui fa parte.
La tenuta democratica del paese, già messa in forse da un parlamento di nominati, eletto con una
legge incostituzionale, che ha legiferato illegalmente per quattro anni, mettendo le mani anche sulla
Costituzione, è ormai al tracollo. Perché sulla questione profughi e migranti, su cui si decide il futuro
dell’Italia, dell’Europa e del poco che ancora resta della democrazia, le tre forze che si
contenderanno il controllo politico del paese- la destra, i 5stelle e il Pd hanno raggiunto una perfetta
unità: «aiutiamoli (a crepare) a casa loro»; respingiamoli a ogni costo. Non c’è scelta. Poco importa
se le destre lo proclamano con slogan razzisti e anche fascisti che i 5stelle ripetono da pappagalli
mentre il Pd fa, ma sempre meno, ipocrita professione di spirito umanitario. In vista delle elezioni, e
senza guardare oltre, Minniti vuole dimostrare che quello che destre e 5stelle propongono lui sa
realizzarlo. E in parte ci riesce, incurante della catastrofe che sta contribuendo a mettere in moto.
Fermare gli sbarchi pagando e rivestendo con una divisa scafisti e trafficanti fino a ieri
indicati come “il nemico”, in combutta con le Ong perché blocchino in mare, riportino a terra o
imprigionino nel deserto profughi e migranti non è buona politica. Sappiamo che cosa fanno di
quegli esseri umani intrappolati in Libia o ai suoi confini meridionali: le violentano, li fanno schiavi, li
affamano, li imprigionano in condizioni igieniche inimmaginabili, li uccidono, li torturano per
estorcere ai loro parenti altro denaro, li trattengono in veri Lager – pagati con fondi europei – e
prima o dopo li imbarcheranno di nuovo verso l’Europa. O minacceranno di farlo come faceva
Gheddafi, o come farà dopo le elezioni tedesche anche Erdogan, per strappare all’Unione europea
altro denaro e nuove legittimazioni: a Erdogan ormai viene permesso tutto. Così, dall’Ucraina in
mano a una milizia nazista, ai «moderati» che combattono Assad in nome della jihad, dai janjaweed
che fermano in Sudan i profughi eritrei alla guardia costiera e ai «sindaci» libici incaricati di
bloccare i flussi verso il Mediterraneo, l’Europa si circonda, armandole fino ai denti, di milizie usate
come ascari, ma che non conosce, non controlla, e che sono sicura garanzia del mantenimento di un
perpetuo stato di guerra in tutte le regioni ai suoi confini, aumentandone degrado e la produzione di
nuovi profughi.
Non c’è argine a questa deriva. Le forze politiche italiane, come i governi dell’Unione europea e
i partiti che li sostengono, Syriza compresa, hanno rotto la diga della solidarietà, lasciando campo
libero a una ferocia covata a lungo sottotraccia, che ora riemerge come razzismo che si sente
legittimato dalle politiche dei governi. A queste politiche non c’è per ora alternativa. A contrastarle
ci sono solo le migliaia e migliaia di iniziative impegnate in tutta Europa nell’accoglienza, i milioni di
individui che ne condividono lo spirito, le moltissime associazioni che cercano di mantener viva la
solidarietà. Ma non sono unite da un programma comune e non è chiaro, al di là degli sforzi per non
sopprimere in sé e negli altri uno spirito di umanità, che cosa si possa fare contro questa offensiva.
Ma la risposta non può più attendere. Invece di puntare lo sguardo su profughi e migranti,
spaventare e spaventarsi per il loro numero – molti meno dei «migranti economici» che diversi paesi
europei, Italia compresa, avevano accolto o regolarizzato ogni anno prima del 2008; e soprattutto
meno delle nuove leve di cittadini e cittadine che verranno a mancare tra la popolazione europea di
qui in poi – bisogna guardare a chi da quegli arrivi si sente minacciato. Se profughi e migranti sono
considerati dai governi un peso e non una risorsa da valorizzare non c’è da stupirsi se molti passano
alle vie di fatto per liberarsene con le spicce. E se casa e lavoro decenti (e scuola, e assistenza
sanitaria, e pensione) sono un miraggio per un numero crescente di europei, la presenza e non solo
l’arrivo di poche o tante persone tenute in inattività forzata, spesso in cattività, ed esibite come un
carico inaccettabile a chi gli abita accanto non può che moltiplicare e acuire quell’ostilità di cui
governi nazionali e locali sono i primi a far mostra. Non c’è argine agli arrivi o imposizione di
rimpatri che possa invertire questa situazione.
Ma le case per tutti ci sono, solo che sono in gran parte vuote. Il lavoro per tutti, cittadini, profughi e migranti, c’è: è quello necessario alla riconversione energetica a cui tutti i governi si sono impegnati a Parigi e a cui nessuno ha ancora messo mano. Il denaro per finanziarla c’è: Draghi
continua a tirare fuori dal cappello centinaia di miliardi che finiscono in tasca alle banche.
Quello che manca è la politica per mettere insieme queste tre cose. Invece ci si è rivolti all’Europa
per farle condividere una militarizzazione di stampo coloniale di confini sempre più ampi e lontani.
Ma il «piano Marshall» da esigere, e rispetto a cui mobilitare non tanto governi e partiti, quanto la
vera opposizione sociale ai programmi di contenimento e di respingimento, è un grande
investimento, capillare e articolato, sulla riconversione ecologica.
Non siamo né finiremo «sommersi». Molti dei profughi arrivati negli ultimi anni e sicuramente
quelli provenienti da zone di guerra o di conflitto armato torneranno nei loro paesi se e appena sarà
possibile. E se altri ne arriveranno, quello che occorre sono politiche di sostegno alle loro esigenze
immediate a partire dai corridoi di ingresso e di promozione della loro capacità di organizzarsi: per
progettare, anche grazie ai legami che hanno con le loro comunità di origine, delle alternative
pratiche alla rapina dei loro territori e ai conflitti che li hanno costretti a fuggire.
È con loro che vanno fatti i progetti di cooperazione e anche i negoziati per restaurare la pace,
dando spazio a queste forze e tenendo il più possibile lontani dai loro paesi multinazionali e mercanti
di armi. Invece di deportazioni mascherate da rimpatri con cui i governi europei cercano di tacitare
quel rancore degli elettori che essi stessi alimentano si innesterebbe così una libera circolazione
delle persone da e verso i loro paesi di origine; a beneficio di tutti.