Il virus viaggia in automobile
Il mercato europeo dell’auto è crollato a febbraio e si è quasi azzerato a marzo, né si sa quando e se si riprenderà. Intanto, una dopo l’altra, le fabbriche del settore fermano l’attività, dopo aver costretto per oltre un mese gli operai a lavorare in condizioni di alto rischio per produrre auto e componenti senza mercato che intaseranno per mesi depositi, magazzini e bilanci.
Ma anche quando il coprifuoco sarà stato tolto chi mai si precipiterà a comprare un’auto? Ben pochi. Chi un’auto ce l’ha riprenderà a guidarla; ma chi non ce l’ha, o pensava di cambiarla, avrà perso il reddito necessario a pagarla (eccetto i ricchi e i ricchissimi) o avrà altre priorità. E intanto ci sarà da smaltire l’invenduto. Dunque, è il momento per mettere a fuoco e prepararsi a un’altra idea di mobilità. L’emergenza covid19 ha sgomberato le strade e pulito l’aria, ma non ha certo interrotto l’avanzata della crisi climatica e ambientale.
L’auto è stata il principale emblema del XX secolo. Al suo esordio è stata espressione e strumento di libertà (permetteva di andare dove volevi, quando volevi e con chi volevi, senza la costrizione di tracciati, orari e compagni di viaggio obbligati); poco per volta, aveva permesso a tanti e promesso a tutti di trasformarli da fanti in cavalieri, da quelli che portano a quelli che si fanno portare. Ma per usare un’auto bisognava possederla: di qui la motorizzazione di massa che ben presto si è rivelata prigione di ogni nostro spostamento ovunque manchi un servizio pubblico adeguato (cioè quasi sempre). Oggi l’auto privata riassume in sé quasi tutti i principali tratti di uno stile di vita e di un’organizzazione produttiva e sociale insostenibili: promuove individualismo (ognuno nella sua scatola di latta) e competizione (per superarsi, per conquistare un parcheggio, per esibire il proprio status); consuma in misura smodata materiali, energia, suolo, aria, salute, tempo e denaro; fa molto rumore, produce molta CO2 e inquina molto (non c’è da illudersi: l’80 per cento del particolato emesso dal traffico non esce dagli scappamenti ma è generato dall’attrito delle ruote sull’asfalto: l’auto elettrica non lo eliminerebbe). Ma oggi si scopre che il particolato che il traffico concorre a produrre insieme al riscaldamento e alle fabbriche (dove ci sono) è, insieme agli ossidi di azoto, il principale vettore del coronavirus, che è tanto più attivo quanto maggiore è l’inquinamento dell’aria: per questo la Lombardia è diventata l’epicentro mondiale dell’infezione.
Di fronte ai danni che l’auto infligge alle nostre vite e al pianeta, i suoi apologeti si trincerano su un altro fronte: l’occupazione. Ma più che dei lavoratori, che sono pronti a mandare al macello, come mandano al macello senza protezioni adeguate medici e infermiere negli ospedali, a loro preme che la produzione non si fermi: in realtà pensano al Pil. E’ vero che nessuna settore ha mai creato tanto lavoro come l’industria dell’auto, ma proprio per questo il suo inevitabile ridimensionamento pone il problema ineludibile di ricollocare i suoi addetti in attività più utili e di minore impatto, come le energie rinnovabili e l’efficienza energetica, l’ecoedilizia, la cura del territorio e delle persone, ecc. ma soprattutto quello della ridistribuzione del lavoro su una platea più ampia, concontestuale riduzione di orari e ritmi di lavoro. Problema che si ripropone in molti altri settori a partire da quello delle armi.
Oggi, comunque, il web permette di sostituire al possesso di un’auto il semplice accesso ad essa attraverso varie forme di condivisione (carsharing, carpooling, taxi collettivo, trasporto a domanda, distribuzione merci, intermodalità con il trasporto di linea). La mobilità fondata sulla condivisione è un modello che può essere esteso a molti altri beni da trasformare in altrettanti servizi (dal coworking alle case vacanza, dagli elettrodomestici ai macchinari, alle attrezzature e ai supporti per farle funzionare, e altro), facendone, se si saprà impedirne l’appropriazione da parte di un monopolio, dei “beni comuni”. Contribuendo così a rendere più leggera la nostra presenza sulla Terra. Sono lontani i tempi in cui l’ex sindaco di Milano Albertini dichiarava che il traffico è un bene perché è indice della vitalità di una città. Ma da allora le idee dei sindaci non sembrano cambiate. A quelli che hanno ripetuto fino all’ultimo “la nostra città non si ferma” e che ora si ritrovano bloccati di fronte a una pandemia che li ha resi impotenti spetta il compito di utilizzare questa pausa forzata per attrezzare territorio e cittadini a una mobilità diversa. Sull’auto come produzione e come prodotto di consumo si gioca buona parte della conversione ecologica.