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Il secolo dei rifugiati ambientali? Il mio contributo al convengo di Milano

Inserito da on Settembre 30, 2016 – 11:55 amNo Comment

Sabato scorso a Milano quasi quattrocento persone, in due sale tra loro distanti e collegate in streaming (Palazzo Reale e Camera del lavoro: una sola non bastava a contenere tutti), hanno seguito per l’intera giornata il convegno Il secolo dei rifugiati ambientali? Promossa da Barbara Spinelli con il gruppo parlamentare europeo GUE/NGL, l’iniziativa è stata organizzata dalle associazioni Laudato sì – Credenti e non credenti per la casa comune, CostituzioneBeniComuni e Diritti e Frontiere con il sostegno del gruppo consiliare Milano in comune e del Centro europeo Jean Monnet. Numero e qualità dei relatori hanno funzionato da richiamo, ma le adesioni dimostrano anche che finalmente si comincia a capire che, volenti o nolenti, questo è il tema più urgente e impegnativo del presente e degli anni a venire. Le relazioni in programma, divise in quattro sezioni, ciascuna delle quali affidata alla moderazione di una delle quattro parlamentari europee presenti, si sono succedute a ritmo serrato. Numerosi i momenti di confronto, le valutazioni non sempre convergenti e le suggestioni che le associazioni promotrici sottoporranno nei prossimi mesi a verifica in altri incontri sui temi che questa prima iniziativa ha posto sul tappeto. E non è mai mancata, nel susseguirsi degli interventi, quella connotazione emotiva di chi mette al centro del suo impegno non solo l’elaborazione di dati e analisi, ma soprattutto l’esistenza di persone esposte a rischi e sofferenze di ogni genere, il cui destino è indissolubilmente legato al nostro modo di stare al mondo e di praticare la convivenza. Qui si accenna solo a quattro temi che hanno dominato il dibattito.

Il primo è l’ambito e la legittimità della qualifica (o “etichetta”) di “rifugiato ambientale”. La convenzione di Ginevra garantisce protezione internazionale alle vittime di guerre e persecuzioni politiche, religiose o sociali, ma non contempla questa figura. Secondo Roger Zetter dell’Università di Oxford il tentativo di estendere la stessa protezione a coloro che hanno abbandonato il loro paese a causa di disastri o del degrado ambientale crea più problemi che vantaggi: diluisce il concetto di profugo, riducendo l’esigibilità dei diritti che oggi gli vengono riconosciuti. Ma soprattutto è dubbia la verifica della condizione di profugo ambientale, perché il rapporto tra degrado ambientale ed esodo non è mai diretto; molti altri fattori si vanno ad aggiungere nel corso del tempo nel motivare l’abbandono di un paese e nel definirne le tappe intermedie. “L’ambiente non perseguita” come fanno invece un regime o una guerra. Ciò non implica certo che non ci si debba far carico dei problemi creati a intere popolazioni dai cambiamenti climatici o dal degrado ambientale; ma il problema va affrontato con un approccio diverso da quello del diritto di asilo. A questa posizione si è contrapposto François Gemenne dell’Università di Versailles-Saint Quentin che, evidenziando l’avvento dell’antropocene, l’era geologica in cui le principali trasformazioni del pianeta sono riconducibili all’opera dell’uomo, ne trae la conclusione che a provocare l’esodo delle persone e delle popolazioni colpite da disastri o degrado ambientale non è “l’ambiente”, ma siamo noi: gli abitanti dei paesi sviluppati, con i nostri consumi, il nostro stile di vita, il nostro sistema economico, che mettono in forse la vita di miliardi di altri esseri umani. Per questo i profughi ambientali sono vittima di una persecuzione vera e propria e come tali hanno diritto a una protezione non meno di chi è perseguitato da guerre o regimi.

Il secondo tema emerso con forza è la dimensione planetaria del disastro ambientale, giunto ben al di là di quanto politici e media lascino credere, di fatto nascondendolo. Un dato messo in luce da quasi tutti gli interventi, ma soprattutto da Emilio Molinari, prendendo spunto dalle crisi idriche in corso o attese nei prossimi decenni, e da Vittorio Agnoletto, che si è soffermato sul land grabbing e sull’imposizione, tramite trattati di partenariato, di rapporti di scambio devastanti con i paesi del Sud del mondo. L’origine dei profughi ambientali è questa. La cosa era stata prevista e denunciata da tempo da esperti e agenzie varie: tra cui il Pentagono, che già nel 1994 aveva scritto che Europa e USA si dovevano attrezzare militarmente per respingere i flussi che quei disastri avrebbero provocato, pena il rischio di esserne sommersi. E’ l’individuazione nei profughi dei nemici dell’Occidente del 21esimo secolo! I numeri li ha poi forniti soprattutto Stephane Jaquemet, delegato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati: tra l’altro, 27,8 milioni di sfollati interni (quelli che non hanno varcato i confini del loro paese) nel 2015. Guerre e violenze ne hanno creato 8,6 milioni; i disastri ambientali 19,2. Tra il 2008 e il 2014 157 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro terre e almeno un terzo di loro non ha più potuto farvi ritorno. Solo una frazione infinitesima di quei flussi ha sfiorato l’Europa, i cui governi trovano però la cosa insostenibile. Sull’intreccio tra guerre, degrado ambientale, ma anche tra degrado e progetti cosiddetti di sviluppo, si è soffermata Marica Di Pierri, portavoce dell’associazione A Sud, mostrando come le aree interessate da questi tre fenomeni si sovrappongano quasi sempre sulla carta geografica. Francesca Casella ha citato l’intervento della cooperazione italiana con l’impresa Salini nella costruzione di un sistema di dighe nella valle dell’Omo (Etiopia) che ha provocato espulsione e massacro di un’intera popolazione: il risvolto nascosto di tante Grandi Opere.

Sul rapporto tra giustizia sociale e giustizia ambientale, cioè rispetto della Terra, della Natura, dei suoi cicli, dei suoi diritti, è intervenuto Giuseppe di Marzo, coordinatore delle campagna Miseria Ladra, Reddito di Dignità e Patto sociale per Libera, mentre il Coordinatore per l’ecosostenibilità della Cooperazione allo sviluppo Grammenos Mastrojeni ha spiegato come delle due grandi matrici ambientali maggiormente colpite dal degrado ambientale, oceani e suolo, il secondo sia quello dove è più facile intervenire perché, affidando alle popolazioni locali la gestione di progetti per restituire fertilità del suolo, se ne salvaguardia l’identità sociale, e con essa un’alternativa all’emigrazione e una possibilità di ritorno; mentre la desertificazione disgrega le comunità e rende impraticabile la coesione e la cura del territorio.

Infine, il tema dell’accoglienza è stato affrontato di petto da don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità di Milano e animatore dell’associazione Laudato sì. L’emergenza di cui si parla non è la nostra, ma è di coloro che arrivano: sono i portatori di una rivendicazione di diritti e di dignità, mentre noi li “categorizziamo” in profughi e migranti economici per poterli respingere e nasconderci l’origine del problema. La politica non riesce a vedere nei nuovi arrivati una risorsa, ma solo un problema. Per questo occorre “deistituzionalizzare” l’emergenza, riconoscendo a tutti i diritti fondamentali di cittadinanza. Sulle politiche di respingimento fondate su accordi con le peggiori dittature, come quella eritrea di Afarwerki, che obbliga tutti a un servizio militare permanente in una guerra che dura da decenni, si è soffermato Padre Mussa Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia, e sono ritornati molti oratori; soprattutto Fulvio Vassallo Paleologo, docente  di Diritto di asilo a Palermo, per denunciare il fatto che le politiche europee nei confronti dei profughi si riducono ormai tutte all’ esternalizzazione dei confini, cercando di affidare il contenimento di quell’esodo a regimi che non rispettano i più elementari diritti umani.

Elly Schlein, parlamentare europea del gruppo S&D, ha sintetizzato in un unico intervento i punti critici delle politiche dell’Unione Europea in materia; ma il senso complessivo del convegno era stato anticipato dalla relazione introduttiva di Barbara Spinelli: occorre risalire alle radici dei processi di espulsione dei profughi ambientali; rivedere le teorie economiche il cui concetto di sviluppo provoca in realtà i danni che sono all’origine di quei flussi; ma soprattutto attrezzarsi per intervenire sull’origine dei processi. Troppo spesso l’accoglienza, anche quella virtuosa praticata da molte ONG, si limita a compiti di tipo infermieristico: alleviare le sofferenze dopo che i danni sono stati provocati, invece di combatterne le cause. Addirittura ci sono ONG che si dedicano a “curare le ferite” sociali provocate dagli investimenti delle organizzazioni che le finanziano. E’ il caso, per esempio, delle ONG che fanno capo a George Soros, investitore nel carbone e proprietario di azioni di imprese giganti come Peabody Energy and Arch Coal. “Se ci limiteremo a fare dell’accoglienza”, ha concluso Barbara Spinelli, “non li avremo veramente salvati, ma avremo solo suggellato il loro sradicamento”.