Il lavoro bene comune (“il manifesto”, 1 dicembre 2010)
L’effetto congiunto della globalizzazione, della crisi economica e dei cambiamenti climatici (tre processi interdipendenti) mette a rischio se non la sopravvivenza del nostro pianeta, certamente quella dell’umana convivenza. Stiamo entrando in un’epoca di grandi sconvolgimenti: ambientali, economici, geopolitici. Possono aprire la strada a immani catastrofi, al moltiplicarsi delle guerre, all’affermarsi di regimi sempre più autoritari, all’aggravarsi delle condizioni di vita di miliardi di esseri umani. Ma grandi sconvolgimenti comportano anche grandi cambiamenti: dentro i quali c’è spazio per prospettive che fino a pochi anni fa potevano sembrare utopiche. Per questo occorre tornare a pensare alla grande; osare imboccare vie nuove; confidando che quello che vogliamo noi stanno cercando di farlo, in condizioni e con modalità anche molto diverse, milioni e forse miliardi di altri come noi; e che le nostre strade potranno incontrarsi.
Trent’anni di predominio incontrastato del “pensiero unico” hanno rinchiuso le classi dominanti di tutto il mondo in un eterno presente, rendendole incapaci di qualsiasi elaborazione di ampio respiro. Verità e capacità di pensare il futuro sono rimaste appannaggio di chi si ribella allo stato di cose esistente.
Chi guarda al futuro dal punto di vista di un mondo diverso sa ormai, in termini generali, molte cose su come deve cambiare il mondo per sopravvivere e permettere a tutti di vivere meglio. Sono “cose” che riguardano l’energia (l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili), l’agricoltura (biologica, multicolturale, multifunzionale) e la sovranità alimentare, il recupero integrale degli scarti e dei rifiuti, la salvaguardia del territorio. Sono tutte pratiche tendenzialmente a km0 (cioè che comportano un progressivo riavvicinamento di produzione e consumo), ciascuna delle quali ha una irrinunciabile dimensione sociale, orientata all’equità e all’accoglienza. Sappiamo di avere il pianeta Terra in prestito dalle generazioni future e di gestirne una parte (quella dove abitualmente viviamo) per conto di tutti. Non siamo, cioè, e non ci consideriamo, “padroni in casa nostra”. Il nostro concetto di sovranità è differente: si chiama autonomia, autogoverno, condivisione.
Le pratiche dei movimenti cresciuti in questi anni sono sempre più declinazioni di questo approccio e di quei saperi in contesti locali, tra loro altamente differenziati; ma per il loro riferimento a un pensiero globale, quelle pratiche non corrono il rischio di cadere in un localismo corporativo senza respiro e senza sbocchi. Questa declinazione di un pensiero globale a livello locale è ovviamente più facile (o meno difficile) su questioni che riguardano l’assetto del territorio, perché la dimensione locale gli è intrinseca: non a caso è stata praticata per prima dagli urbanisti e ha investito soprattutto questioni come edilizia, gestione delle acque, dei rifiuti, della mobilità, delle colture, degli spazi pubblici.
Più difficile è questa declinazione quando essa riguarda i grandi flussi planetari di materiali, semilavorati e beni fisici che sono e restano l’essenza della produzione industriale. Per questo, intorno alla cosiddetta green economy, cioè alla riconversione ambientale dell’apparato produttivo permane una sostanziale ambivalenza. Molti dicono: “la green economy la sta già facendo, o si metterà presto a farla, il capitale; per salvaguardare i suoi profitti”. Non è così. Anche se la fa, e quando la fa, il grande capitale di green economy ne fa poca: troppo poca; tanto è vero che non riesce a darsi regole che permettano di frenare la corsa del pianeta verso il baratro dei cambiamenti climatici. E la fa male; sfruttando quanto più può lavoratori e ambiente (l’esempio più perverso di questo approccio è forse quello degli agrocarburanti). Noi invece dobbiamo agire perché di green economy se ne faccia molta (e presto; prima che i guasti del pianeta diventino irreversibili) e bene: cioè affrontando i problemi nella loro dimensione sociale.
“Bene” vuol dire che il lavoro deve essere non oggetto di questa trasformazione, ma attore, insieme ad altri attori: quelli che concorrono a costituzione socialmente determinata di un territorio. Per questo il lavoro è la vera frontiera della conversione ecologica. Per molti questa è un’acquisizione recente: che il lavoro è un “bene comune” lo ha detto la Fiom, sotto l’incalzare della crisi occupazionale – e del ricatto di Pomigliano – e ne ha fatto il fulcro della manifestazione del 16 ottobre. E’ un’affermazione impegnativa.
Ma che cos’è un bene comune? Penso che si debba rifuggire da qualsiasi classificazione che ne faccia un catalogo chiuso, definito una volta per sempre. Perché il confine che delimita l’area dei beni comuni è mobile; è il frutto di un contenzioso permanente – che a volte sfocia in lotta, altre volte in organizzazione e in progetto, e altre ancora in tutte e tre le cose – per sottrarre a una gestione privata valori d’uso suscettibili di essere condivisi. Ma il risultato di questo processo non è l’acquisizione o il reintegro del bene conteso nell’area della proprietà pubblica; anche se spesso, ma non sempre, questo è un passaggio ineludibile. Perché condivisione vuol dire partecipazione della collettività alla gestione del bene conteso: in forme che dipendono, sì, dalla sua natura e dalle sue dimensioni; ma anche, e soprattutto, dall’intensità dell’impegno della “cittadinanza attiva”; o di una sua parte. Per questo forse nessun bene sarà mai veramente “comune” fino in fondo; ovvero, ci sarà sempre la possibilità di rendere più intenso e profondo questo suo carattere.
Ora, affermare che il lavoro è un bene comune è una proposizione che riguarda certamente, e in primo luogo, la salvaguardia della dignità del lavoro e dei diritti che una società deve garantire ai lavoratori; ma significa anche, e soprattutto, che le modalità in cui il lavoro viene impiegato, le finalità di questo impiego e, conseguentemente, il prodotto stesso (bene o servizio) di quel lavoro sono questioni che possono, e dovrebbero, veder coinvolti innanzitutto i lavoratori stessi; ma anche tutta la comunità che insiste sul territorio con cui quel lavoro si intreccia: sia che ne dipenda per il reddito che esso genera, sia che ne sopporti il carico ambientale che esso comporta. Basta enunciare questo proposito per capire quanto siamo lontani – e quanto ci stiamo allontanando – da un mondo in cui il lavoro sia effettivamente un bene comune. Ma anche che l’inclusione del lavoro nel “catalogo” dei beni comuni è, come per tutti gli altri, un processo e non un’acquisizione definitiva; un work in progress che procede per tappe, per avanzate e arretramenti, e che probabilmente non avrà mai fine.
Ma è il lavoro, comunque, la vera frontiera della conversione ambientale dell’apparato produttivo e dei modelli di consumo. E’ una frontiera su cui pochi di noi – di chi è impegnato in progetti e in lotte per la salvaguardia del territorio e della convivenza – si ritrovano a pieno titolo (diverso è il caso dei milioni di contadini e delle migliaia di comunità rurali impegnate a rivendicare e perseguire il proprio autogoverno).
E’ facile – e per me sacrosanto – dire meno inquinamento, meno traffico, meno auto. Ma è difficile dirlo ai lavoratori di una fabbrica di automobili in crisi. Eppure è di qui che occorre passare. E lo si può fare solo prospettando, e sottoponendo alla loro verifica, al loro coinvolgimento, ai loro suggerimenti, una proposta alternativa. L’importanza della vicenda della Fiat di Pomigliano è questa. Certo sono in gioco dignità del lavoro e salvaguardia dei diritti e della salute dei lavoratori: tutte cose senza le quali la democrazia scompare. Ma collocata tra la chiusura certa dello stabilimento di Termini Imerese e il depotenziamento altrettanto certo di quello di Mirafiori, e di fronte a un ricatto che dice “datemi tutto in cambio di niente; poi si vedrà”, tutti hanno capito, anche se pochi hanno ammesso in modo esplicito – e non sempre per colpa loro; ma per le difficoltà connesse al trovarsi, più di altri, sulla “frontiera” del lavoro – che la partita che si gioca è molto più alta e non riguarda solo quali modelli e quante vetture ogni stabilimento debba produrre. La vera questione è: ci saranno ancora in Italia fabbriche in grado di produrre automobili? E quante? E per quanto tempo? E se dovessero chiudere, come è stato prospettato, si possono sviluppare in Italia produzioni industriali che hanno più chance di successo? Magari perché rappresentano l’avvenire; perché non danneggiano l’ambiente; perché possono avvantaggiarsi di un mercato locale, senza costringere i lavoratori a competere con altri lavoratori, a suon di ribassi, in una gara senza sosta verso il sempre peggio? E come coinvolgere in una svolta del genere i lavoratori di quelle fabbriche e le comunità dei territori che ad esse fanno riferimento?