Dal lavoro alla cura
La pandemia che ha investito tutto il pianeta e costretto metà dei suoi abitanti – quelli che una casa ce l’hanno – a rinchiudersi nelle proprie abitazioni ha reso evidente la faglia che separa le attività nelle quali sono impegnati tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici: da un lato ci sono attività al servizio del benessere o del miglioramento dell’umana convivenza: innanzitutto gran pare della filiera della salute, medici, infermieri, produttori e gestori di presidi sanitari; poi quella del cibo, dall’agricoltore al cuoco, dal fornaio alla commessa di un supermercato; la logistica, per far arrivare a destinazione beni, semilavorati e persone; l’educazione a tutti i livelli e in tutte le forme; l’informazione; e ancora, tutte le attività di manutenzione e di riparazione, e tante altre.
Dall’altro ci sono i tanti lavori finalizzati esclusivamente o prevalentemente alla produzione di profitti, a cui sono stati comandati, a rischio della loro vita e di quella dei loro familiari, milioni di lavoratori che avrebbero fatto volentieri a meno di produrre, soprattutto in quelle condizioni, se solo fosse stato garantito loro di che vivere. Ci sono dunque, anche se il confine che li separa è incerto e mobile, attività utili e indispensabili, per quanto gravose e anche rischiose possano essere state rese per chi le svolge, e lavori giustificati solo dalla necessità di mandare avanti comunque la fabbrica dei consumi superflui, la devastazione del pianeta e la produzione di profitti.
Si è aperto così, nel foro interiore di molti, anche se ben poco sugli organi di stampa e sui media che ne avrebbero dovuto promuovere e diffondere i risultati, un interrogativo sul senso del lavoro proprio e altrui.
A questo interrogativo ho cercato di dare una risposta con un pamphlet, in cui il lavoro viene contrapposto alla cura (Dal lavoro alla cura – Risanare la Terra per guarire insieme, pagg. 110, Interno4, € 9, che sarà in libreria a partire dal 25 marzo).
Questa contrapposizione mi è stata suggerita dalla crescente importanza che il concetto di cura sta assumendo nei tanti ambiti in cui si cerca di inquadrare, entro un orizzonte comune, ancorché ampiamente differenziato, la prospettiva di un rovesciamento radicale di quell’approccio al mondo e a gran parte delle sue manifestazioni che ci è stato imposto dalla globalizzazione e dalla cultura mainstream, cioè dal “pensiero unico” dominante. Sulla cura della casa comune (un termine che include sia persone che cosa, sia giustizia sociale che rispetto per l’ambiente e tutto il vivente) è d’altronde anche il sottotitolo dell’enciclica Laudato sì di papa Francesco, un documento straordinario di carattere politico, sociale, ambientale culturale e, ovviamente, anche religioso, a cui quel libro fa spesso riferimento.
Il concetto di cura, intesa come finalità e senso dell’agire umano in campo economico, ma anche, e soprattutto, in quelli sociale, culturale e ambientale, è stato giustamente contrapposto a quello di profitto (“società della cura” contro “società del profitto”) e anche a diversi concetti a esso correlati come competizione, economia di mercato, crescita, sviluppo economico e simili. Quello che non si è avuto finora la volontà, o non si è sentita la necessità, di mettere in discussione, di svelare nella sua sostanziale ambiguità, è quel vero e proprio macigno che sta alla base e che costituisce la giustificazione ultima di tutte le scelte, i comportamenti, gli atteggiamenti e le remore che si frappongono e si sono finora frapposti al dispiegamento di un rapporto tra gli esseri umani e il loro mondo sociale e ambientale che sia effettivamente fondato sulla cura.
Quel macigno è il lavoro fine a se stesso, l’occupazione, la creazione e la moltiplicazione dei posti di lavoro, la sacralizzazione del lavoro dietro a cui si nasconde da tempo gran parte delle malefatte del dominio economico. La pretesa di attribuire comunque un valore e una “dignità” al lavoro, indipendentemente dalle condizioni nelle quali si svolge e dai risultati che produce, è proprio ciò che allontana da un’autentica pratica della cura.
Nella cura, e non solo nei molti dei cosiddetti “lavori di cura”, c’è sempre, esplicita o latente, una componente affettiva verso l’altro da sè – persone o “mondo” – che al lavoro in quanto tale per lo più manca; e che quando c’è è per lo più autoreferenziale e si presenta sotto forma di “orgoglio” del mestiere o della professione; oppure è promosso o imposto dall’esterno; ma il più delle volte nei confronti del proprio lavoro si riscontra solo insofferenza, fastidio, rigetto: si lavora per campare, perché – ma la cosa riguarda solo una parte della compagine sociale – “chi non lavora non mangia”.
Nel corso di secoli e millenni il lavoro e la fatica che esso comporta sono sempre stati legati a una condizione servile o a una imposizione, a cui si contrapponeva il privilegio di chi ne era esentato o, dove e quando i costumi o le istituzioni sociali lo permettevano, la “festa” come sospensione della fatica e della costrizione quotidiane; una contrapposizione che oggi si ripresenta nella distinzione, dai confini sempre più flebili e incerti, tra lavoro e “tempo libero”.
Ciò che caratterizza l’attuale sistema economico globalizzato – e che ha segnato nel corso del tempo gran parte dell’evoluzione del capitalismo e della società industriale – e tutto ciò che fa da base alla legittimazione delle sue pretese, delle sue imposizioni e persino dei suoi crimini, ci riporta sempre, direttamente o in ultima analisi, al tema dell’occupazione; alla necessità di creare o di “salvare”, più che dei redditi, dei posti di lavoro; al punto che spesso, per “salvare” un’impresa e i suoi posti di lavoro, non si esita a “sacrificarne” una parte. Quello che si vuole salvare è in realtà il lavoro come risorsa; il lavoro come “motore dello sviluppo”.
Così l’obiettivo della piena occupazione spesso viene proposto solo per nascondere la rinuncia a ripartire tra una più ampia platea di donne e di uomini, con una drastica riduzione del tempo, dei carichi e dei ritmi del lavoro, le attività che veramente servono alla cura della casa comune; rinunciando con ciò stesso a perseguire la soppressione di tutti quei lavori – e sono molti – che fanno solo danno a sé, agli altri, al vivente, alla Terra.
Perché, lungi dal sussumere sotto di sé la totalità delle attività umane dotate di senso, il lavoro di fatto le esclude e, con i più recenti sviluppi della crisi climatica e ambientale – e ora anche di quella sanitaria – più si sente il bisogno di trovare una strada che ci porti fuori e lontano dal pericolo, più le attività di cura tradizionalmente escluse dalla concezione “ortodossa” del lavoro, le attività connesse non solo alla riproduzione della vita biologica ma soprattutto quelle che stanno alla base della costruzione e ricostruzione della vita sociale e della convivenza, irrompono al centro del nostro interesse spingendo ai margini della vita “vera” il cosiddetto “lavoro produttivo”, quello riconosciuto e remunerato come tale, ovunque non concorra alla cura di se stessi, degli altri e del mondo; cioè per lo più. Ma quell’interesse, che per molti è per ora solo un’aspirazione, ma che per altri costituisce già un impegno concreto, altro non è che il programma di una radicale riconversione ecologica degli assetti sociali e produttivi.