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Ho scritto per la rivista “Parole chiave” un articolo sul tema del riuso

Inserito da on Ottobre 19, 2011 – 3:50 pmNo Comment

La Terra non ci appartiene. Siamo noi che apparteniamo alla Terra. Nessuna porzione o pezzo della Terra può appartenere veramente a chicchessia, perché noi nasciamo e moriamo, mentre la Terra esisteva prima di noi e continuerà a esistere – e a lungo – dopo di noi. Quello che abbiamo avuto in eredità da chi è vissuto prima di noi non è innanzitutto la “proprietà” che qualche nostro parente ci ha lasciato, ma la terra nel suo insieme, perché solo quell’insieme ci consente di vivere e riprodurci, anche se qualche porzione di questa Terrà – e magari proprio quella in cui viviamo – è stata già manomessa o rovinata da chi è vissuto prima di noi: e magari fin dai primordi degli insediamenti umani, come è successo con la scomparsa dei grandi mammiferi nell’America Centrale, con la desertificazione del Sahara in seguito all’overgrazing, con la salinizzazione del suolo della Mesopotamia per un eccesso di irrigazione, con il disboscamento di tante pendici montuose trasformate in superfici sterili e franose. E soprattutto, ovviamente, da quando la rivoluzione industriale ha messo al lavoro in misura massiccia i combustibili fossili, con la saturazione dell’atmosfera con gas di serra, con l’inquinamento dell’aria, delle acque e dei suoli con sostanze di sintesi che gli organismi prodotti dall’evoluzione naturale non sono predisposti a metabolizzare e a reinserire in un nuovo ciclo trofico in tempi accettabili, con l’introduzione di potenti e sempre più gigantesche macchine per il movimento terra, in grado di spianare intere montagne e aprire voragini nelle viscere del pianeta, con l’impermeabilizzazione di una quota crescente del suolo per farci correre sopra le nostre automobili, far decollare e atterrare i nostri aerei, depositare a terra milioni di container in attesa di essere trasportati da una parte all’altra del globo. Eccetera.

Quello che qualcuno di noi può avere ereditato o avere acquistato nel corso della sua vita come “proprietà privata”, dal cui godimento escludere tutti gli altri, ha trovato e può ancora trovare una giustificazione nelle esigenze connesse al funzionamento – a un particolare tipo di funzionamento, che ha avuto anch’esso un inizio e ha avuto o avrà una fine nel corso dell’evoluzione storica – della macchina produttiva: a condizione, come recita anche l’art. 41 della Costituzione italiana, che non leda “l’utilità sociale” o “la sicurezza, la libertà e la dignità umana”. Lo stesso vale per quelle porzioni di suolo, grandi o piccole – locali, regionali, “nazionali” o continentali – in cui ci è capitato di nascere e, in base a questo solo fatto, di diventare titolari di particolari diritti di cittadinanza. Ma la Terra è di tutti – di questa come delle future generazioni – perché noi apparteniamo alla Terra; e, fatte salve ragioni di “ordine pubblico” ciascuno di noi dovrebbe avere diritto di trasferirsi in quella parte del pianeta che del pianeta che più gli aggrada.

Ma l’uso che la specie umana fa della Terra – e, sempre più, di ogni particolare porzione di essa – non si limita a cambiarne i connotati, ma spesso, e sempre più di frequente nel corso degli ultimi secoli, le manda in malora: cioè le rende inospitali non solo per chi ci abita e per la specie in generale; ma sempre più anche per tutti gli esseri viventi: animali, vegetali, funghi o licheni. L’uomo, che spesso si è posto al punto terminale di una molteplicità di catene trofiche, appartiene anche a una delle specie più esposte ai cambiamenti indotti dalle manomissioni che egli stesso infligge al pianeta; perché la biosfera potrebbe anche sopravvivere e ritrovare nuovi equilibri vitali in assetti in cui per la vita umana potrebbe invece non esserci più spazio.

Per questo la manutenzione del pianeta Terra e di ogni sua singola porzione e la riparazione per tempo dei guasti che il tempo, o l’usura, o la trascuratezza, o la violenza, o l’aggressione infliggono loro costituiscono il supremo imperativo categorico per ogni abitante del pianeta: a partire da quelle porzioni e da quegli aspetti che sono per noi “a portata di mano”.

Perché la Terra è fatta di mille e mille cose particolari: “naturali” – boschi, fiumi, mari, monti, laghi, piante e animali – e di mille e mille cose “artificiali”, costruite e trasformate dall’uomo nel corso della storia – campi, case, città strade, impianti, attrezzature, beni mobili e immobili – e la manutenzione e la riparazione di ciascuna di esse, per farle durare nella loro forma e ne loro uso originario, fin che ci possono essere utili o indispensabili, è il modo principale in cui ciascuno di noi, o ciascuna delle organizzazioni, delle istituzioni, delle associazioni di cui facciamo parte, possono ”prendersi cura” della salute della Terra nel suo complesso. Ed è anche il modo, visto l’affollamento di uomini e cose a cui l’evoluzione degli ultimi due secoli ha sottoposto il pianeta, per ridurre al minimo la necessità e il bisogno di “produrre” cose nuove, strappando all’ambiente più risorse di quelle che ogni anno esso è in grado di rigenerare e riversando in esso più scarti di quanto sia in grado di accogliere perché invece di riparare quello che abbiamo si è preferito buttarlo via per sostituirlo con qualcosa di “nuovo”.

Ma ciò comporta anche adoperarsi per aprire, a favore del riuso, tutti gli sbocchi possibili per i prodotti usati: facilitazioni per il commercio elettronico; giornate e sedi per lo scambio di oggetti dismessi; attrezzature e circuiti dedicati alla raccolta di particolari categorie di rifiuti; accesso a beni durevoli scartati e conferiti ai circuiti di raccolta dei rifiuti ingombranti o alle riciclerie (o ecocentri); laboratori di riparazione e recupero delle cose guaste; mercatini dell’usato.

Poi, facilitazioni per il commercio o la cessione dei prodotti scartati senza essere stati consumati . Il che riguarda soprattutto i prodotti alimentari appena scaduti o prossimi alla scadenza e molti residui del catering rimasti intatti; ma anche gli avanzi di magazzino del settore abbigliamento che finiscono nei cosiddetti outlet. Tutte attività in cui il piccolo business si intreccia, o lavora fianco a fianco, sia con grandi imprese che con organizzazioni che operano con finalità assistenziali e di beneficenza.

Si tratta, come si vede, di una gamma molto ampia di soluzioni. Alcune richiedono un impegno specifico di ricerca e sviluppo da parte delle imprese produttrici (le produzioni modulari); altre sistemi organizzativi e logistici molto complessi (il vuoto a rendere); altre ancora un forte impegno civico dei cittadini-consumatori (l’abbandono dell’usa-e-getta). Ma tutte richiedono iniziative capillari e grandi campagne di informazione e di educazione, sia in campo alimentare che ambientale.

Alcune, infine, comportano promozione e ”accompagnamento” di iniziative imprenditoriali, cioè una nuova imprenditoria dedicata: sociale, privata o cooperativa. Ma tutte queste attività rientrano comunque in un’unica politica generale, finalizzata alla promozione del riuso, che non può prescindere, per essere efficace, dalla diffusione di una cultura di maggiore affezione per gli oggetti di cui facciamo un uso quotidiano. Esattamente il contrario di ciò che ogni giorno ci propongono e ripropongono la moda e la pubblicità.

Ci sono molti casi in cui le possibilità del riuso sono indissolubilmente legate a strutture industriali o a circuiti organizzativi complessi, che non è nelle possibilità del singolo, e nemmeno di un ristretto gruppo di persone, attivare o costituire. Sono cose che al massimo possono essere chieste o rivendicate, cercando di farne l’obiettivo comune di campagne politiche e culturali e di un fronte di lotta quanto più ampio possibile.

Un esempio calzante è costituito dai prodotti, come i pannolini lavabili e assolutamente impermeabili, che non richiedono un aumento di lavoro per i genitori e che possono egregiamente sostituire in molti casi quelli usa e getta, ed essere usati e riusati fino a che il bebè non è cresciuto abbastanza da poterne fare a meno. Per usarli bisogna che i circuiti commerciali li mettano a disposizione ovunque. L’esempio più chiaro è comunque quello del vuoto a rendere: l’atto elementare di riportare una bottiglia di birra al banco del bar per farsi restituire i 30 o 50 centesimi di cauzione, o di riportare le bottiglie di latte o di bibite al supermercato dove sono state acquistate, è una pratica ormai affermata da anni in molti paesi del nord e del centro Europa.

Ma quella pratica non è il residuo di abitudini che anche i più anziani di noi conoscono, perché erano già praticate, imposte dalla penuria, negli anni dell’immediato dopoguerra. Sono state ispirate da una precisa precauzione di carattere ambientale, se vuoi anche in vista di una possibile penuria prossima ventura di materie prime e di energia.

Ma dietro quell’atto così semplice di restituzione del vuoto c’è una complessa organizzazione logistica che ha standardizzato e unificato i formati dei contenitori utilizzati dai diversi produttori (bottiglie, flaconi, cassette, barattoli e bidoni); che ne garantisce il ritiro, l’igienizzazione, la manutenzione e la restituzione ai produttori per reimmetterli in un nuovo ciclo di produzione e consumo. E spesso, delle norme che rendono obbligatoria la cauzione, o penalizzano pesantemente i prodotti che non si uniformano agli standard richiesti.

E’ un circuito che i gruppi economici più forti potrebbero gestire – e in alcuni casi gestiscono – in completa autonomia; ma che ha comunque un costo che scoraggia il suo mantenimento (valga per tutti la progressiva scomparsa delle bottiglie in vetro a rendere della Cocacola). Mentre le imprese più piccole, e soprattutto quelle che distribuiscono prodotti locali, a “chilometri zero”, cioè in un ambito territoriale necessariamente ristretto, non possono assolutamente permettersi: hanno bisogno di una logistica condivisa.

Meno complessa, ma tutt’altro che semplice, è l’altra pratica che sta all’origine dei maggiori successi nelle politiche di riduzione della produzione di rifiuti urbani: la distribuzione mediante dispenser di prodotti sfusi: dal latte fresco ai detersivi, dai prodotti commestibili in grani o in polvere al vino e alla birra. I contenitori che vengono usati per rifornire i dispenser e quelli che usano i clienti dei punti vendita che utilizzano questo sistema sono un classico oggetto che si usa e riusa molte volte, senza buttarlo via ogni volta, e senza quindi produrre un mare di rifiuti.

Così è anche per le brocche usate per l’acqua da bere attinta direttamente dal rubinetto – e dio solo sa qual è l’impatto ambientale ed economico dei miliardi di bottiglie di plastica che vengono buttati via ogni anno, e dei camion che li trasportano su e giù per le strade dei cinque continenti – o per i contenitori dell’acqua distribuita dai dispenser collocati in scuole, uffici e strutture pubbliche, anche all’aperto e accessibili a tutti, magari dopo averla raffreddata o addizionata con anidride carbonica. Sistemi analoghi, che sostituiscono all’acquisto del prodotto e poi al suo smaltimento come rifiuto un contratto con l’impresa produttrice che si incarica non solo della sua produzione, ma anche della sua rigenerazione, della sua consegna e del suo ritiro sono sempre più in uso per molti input altamente inquinanti della produzione industriale: lubrificanti, solventi, catalizzatori. Anche qui ci troviamo di fronte a soluzione industriali finalizzate alla promozione del riuso.

L’ultimo esempio di rilievo è quella dei componenti modulari che permettono di sostituire solo le parti logore, guaste o obsolete di un’apparecchiature, preservando per il riuso tutto il resto.

In alcuni casi, che potrebbero tornare a essere i più frequenti, come lo erano nelle società pre-industriali e per tutta la prima fase della rivoluzione industriale, fino a pochi decenni fa, il riuso non comporta affatto un passaggio di mano dei beni, ma solo la loro manutenzione.

In varie forme: dalle più elementari – come lavare i piatti o i pannolini, ieri a mano, oggi in una lavastoviglie o in una lavatrice – a quelle via via più complesse, che richiedono la riparazione invece della sostituzione del bene guasto nella sua interezza. Oppure la sostituzione di alcune delle sue parti soltanto: quelle logore od obsolete. O anche la loro riparazione, resa sempre più difficile perché ormai i pezzi di ricambio sono concepiti e fabbricati per essere sostituiti in blocco: basta pensare alle trasformazioni subite nel corso degli ultimi decenni da componenti come il cruscotto di un’automobile o la resistenza di un elettrodomestico.

La manutenzione è l’elemento fondamentale che garantisce il “buon fine” del riuso: la condizione ineliminabile di un prolungamento della vita di un oggetto, di un’apparecchiatura, di un edificio o di una risorsa naturalistica è l’attenzione verso il loro stato, la loro funzionalità, il loro aspetto esteriore, la loro igiene o la loro pulizia. In molti casi manutenzione vuol dire riparazione. E qui si apre il capitolo più delicato.

Perché riparare un bene, di qualsiasi genere esso sia, vuol dire conoscerlo a fondo; sapere come funziona; saperci “mettere le mani dentro”; ma anche trovare o disporre delle parti che richiedono una sostituzione. Più l’oggetto sono tecnologicamente complesso, più sono numerose, ampie e specialistiche le conoscenze richieste per ripararlo. Più è compòesso il bene naturalistico che si vuole preservare, e maggiori sono le conoscenze interdisciplinari necessarie a consentirgli di ritornare in uno stato di equilibrio- Fino a un certo punto possono bastare le competenze e le abilità di chi l’oggetto lo ha in uso o ne intende entrare in possesso o quelle di chi vive o lavora a contatto con uno scampolo più o mano ampio di “natura”. Da un certo punto in poi l’intervento di competenze specialistiche diventa indispensabile e, in alcuni casi, anche obbligatorio per legge.

La presenza e il grado di diffusione nel tessuto sociale di conoscenze e abilità del genere danno la misura del peso che in un determinato assetto sociale viene riservata alla “cultura materiale”; cioè, non alla cultura “alta” delle manifestazioni dello spirito, e nemmeno a quella tecnologica propria della produzione industriale, ma alla “cultura” della convivenza con gli oggetti della nostra vita quotidiana.

Anche quando viene esercitata in forme professionali, la manutenzione di un oggetto, di un’attrezzatura o di un impianto richiede quelle virtù di attenzione, conoscenza, intelligenza e abilità manuale che Richard Sennett attribuisce al moderno Uomo artigiano (2008): le modalità di un approccio al lavoro in cui l’autore intravede una alternativa radicale alla spersonalizzazione e allo svuotamento dell’attività lavorativa che ha caratterizzato il modo di produzione fordista, fondato sulla parcellizzazione delle mansioni lungo la catena di montaggio,; e, in un crescendo di deresponsabilizzazione e di estraneazione dal contenuto di quello che si fa, il regime lavorativo dell’Uomo flessibile (Sennett, 1999), proprio dell’universo cosiddetto postfordista.

Attraverso la manutenzione come sua condizione imprescindibile, il riuso investe in realtà tutto l’ambito della gestione dei rifiuti: nel 1975, riprendendo un “indirizzo” già formulato dall’OCSE l’allora Comunità Europea (oggi UE) fissò in una direttiva che ha fatto epoca i principi di una corretta gestione dei rifiuti, stabilendo una gerarchia tra di essi: prima la riduzione, poi il recupero di materia; il “recupero energetico”, cioè, sostanzialmente, l’incenerimento dei materiali combustibili, ma anche la fermentazione anaerobica di quelli organici, con utilizzo energetico del biogas prodotto, avrebbero dovuto riguardare solo il materiale non altrimenti recuperabile; infine la discarica, doveva essere riservata esclusivamente ai residui dei precedenti processi.

Questa gerarchia è stata, come d’obbligo, ripresa in tutte le norme ambientali degli stati membri, e poi nelle leggi regionali, nei piani provinciali e comunali e in quasi tutti i contratti di servizio stipulati tra i comuni e le aziende, di igiene urbana. Ma non è mai stata applicata in questa forma. Anche nei paesi più virtuosi, la successione con cui le regole dell’UE sono state applicate segue esattamente l’ordine inverso. Si è cominciato a mettere a norma le discariche; poi si è passati a produrre un gran numero di inceneritori “di seconda generazione” (con recupero di energia e con potenti e molteplici filtri per l’abbattimento delle emissioni inquinanti). Poi, cominciando dagli imballaggi, è stata introdotta la raccolta differenziata, premessa e condizione indispensabile del recupero di materia; solo alla fine, e da pochi anni, si è cominciato a pensare seriamente alla riduzione dei rifiuti: il principio numero uno di quella gerarchia. Produrre meno rifiuti è possibile: lo hanno dimostrato molte industrie per quanto riguarda gli scarti di lavorazione; ma lo stanno dimostrando anche alcune città virtuose – soprattutto, ma non solo, in Germania – per quanto riguarda i rifiuti urbani.

E’ questa la nuova frontiera della gestione dei rifiuti che, insieme alla raccolta differenziata di ciò che va comunque scartato, rende praticabile l’obiettivo “rifiuti zero” (o, meglio, “riciclo totale”, che vuol dire evitare di mandare in fumo materiali preziosi contenuti nei rifiuti per produrre, con gravi rischi per la salute, quantità irrisorie di energia): un obiettivo nel cui perseguimento è ormai impegnato un numero crescente di comuni, di associazioni, di enti, di comitati in tutto il modo.

Ma che cos’è la riduzione dei rifiuti urbani? Oltre al frutto di uno stile di vita e di consumi più sobri e di una maggiore attenzione negli acquisti – comprando solo ciò che ci serve e che contiamo di usare veramente – è il riuso di quello che non ci serve più. In varie forme. Riuso degli imballaggi (che sono circa il 40 per cento in peso, molto di più in volume, dei rifiuti urbani che produciamo) con il sistema del vuoto a rendere e della vendita alla spina dei prodotti sfusi. Ritorno dell’acqua da bere in brocca (un contenitore riusabile), eliminando il traffico di bottiglie che attraversa ogni giorno la nostra penisola su pesanti camion.

Utilizzo di borse per la spesa in tessuto al posto dei famigerati shopper. Riuso di stoviglie lavabili con l’abbandono dei piatti e delle posate di carta o di plastica e riuso di moderni pannolini e pannoloni lavabili in lavatrice, che non sono gli antichi “ciripà” della nonna, ma il prodotto di una moderna tecnologia, abbandonando quelli usa-e-getta. Produzione e vendita di apparecchiature elettriche ed elettroniche fabbricate in forma modulare, in modo che il logorìo o l’obsolescenza di alcune parti permettano di sostituire solo i componenti guasti o superati e di continuare a usare tutto il resto. Eccetera.

L’Unione europea ha preso atto di questo dato e nella più recente revisione della normativa comunitaria sui rifiuti, la Direttiva 2008/98, ora recepita anche dall’Italia, introduce, inserendola tra la riduzione e il riciclo, le attività di “preparazione per il riuso”: che sono tutte quelle che possono concorrere a rimettere in circolo dei beni dismessi per destinarli allo stesso utilizzo a cui sono stati impiegati precedentemente; o a un uso analogo. Cioè selezione, pulizia, riparazione, utilizzo come componente, acquisto e vendita. Queste attività sono ora in attesa di una normazione da parte degli Stati membri, tra cui l’Italia.

Ma ciò comporta anche adoperarsi per aprire, a favore del riuso, tutti gli sbocchi possibili per i prodotti usati: facilitazioni per il commercio elettronico; giornate e sedi per lo scambio di oggetti dismessi; attrezzature e circuiti dedicati alla raccolta di particolari categorie di rifiuti; accesso a beni durevoli scartati e conferiti ai circuiti di raccolta dei rifiuti ingombranti o alle riciclerie (o ecocentri); laboratori di riparazione e recupero delle cose guaste; mercatini dell’usato.

Poi, facilitazioni per il commercio o la cessione dei prodotti scartati senza essere stati consumati . Il che riguarda soprattutto i prodotti alimentari appena scaduti o prossimi alla scadenza e molti residui del catering rimasti intatti; ma anche gli avanzi di magazzino del settore abbigliamento che finiscono nei cosiddetti outlet. Tutte attività in cui il piccolo business si intreccia, o lavora fianco a fianco, sia con grandi imprese che con organizzazioni che operano con finalità assistenziali e di beneficenza.

Si tratta, come si vede, di una gamma molto ampia di soluzioni. Alcune richiedono un impegno specifico di ricerca e sviluppo da parte delle imprese produttrici (le produzioni modulari); altre sistemi organizzativi e logistici molto complessi (il vuoto a rendere); altre ancora un impegno civico dei cittadini-consumatori (l’abbandono dell’usa-e-getta). Ma tutte richiedono iniziative capillari e grandi campagne di informazione e di educazione, sia in campo alimentare che ambientale. Alcune, infine, comportano promozione e ”accompagnamento” di iniziative imprenditoriali, cioè una nuova imprenditoria dedicata: sociale, privata o cooperativa. Ma tutte queste attività rientrano comunque in un’unica politica generale, finalizzata alla promozione del riuso, che non può prescindere, per essere efficace, dalla diffusione di una cultura di maggiore affezione per gli oggetti di cui facciamo un uso quotidiano. Esattamente il contrario di ciò che ogni giorno ci propongono e ripropongono la moda e la pubblicità.

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