Una nuova economia per una nuova Europa (“il manifesto”, 25 luglio 2012)
Una classe dirigente inetta, incolta, arrogante, asservita sta portando alla rovina l’Europa e con essa le principali conquiste che il movimento operaio e la cultura democratica avevano realizzato nel corso di un secolo di lotte: contrattazione collettiva, “pieno impiego”, diritti sindacali, sanità, pensione, istruzione, ricerca e cultura come diritti universali: promossi per il bene di tutti e non nel solo interesse di chi li paga o ne beneficia. La combinazione e l’emersione contemporanea di tante manchevolezze nelle nostre classi dirigenti è riconducibile all’adesione di tutte, per molti esplicita e per gli altri sottintesa (in base all’assunto che “non c’è alternativa”) alla teoria liberista che affida il governo della società al mercato; anzi, ai “mercati”: sempre meno identificati come un sistema di relazioni tra soggetti indipendenti e sempre più come un insieme di potenze imperscrutabili nelle cui mani è riposto il destino del mondo. Sotto la copertura di questa pseudoteoria che ha impregnato di sé i vertici di imprese, istituzioni finanziarie, governi, partiti e mondo accademico si sono andati realizzando, nel corso dell’ultimo trentennio, l’asservimento totale della vita di intere popolazioni e dei loro governi, da un lato, al potere della finanza (e un gigantesco trasferimento di risorse dal lavoro al capitale) e, dall’altro, a uno spirito proprietario (condito di nazionalismo e razzismo: “padroni in casa nostra”) che quelle stesse classi dirigenti sono andate diffondendo per “fidelizzare” il loro elettorato. La politica è stata così ridotta a mera contabilità: dapprima sostenendo che solo il mercato promuove il benessere; da quando è scoppiata la crisi, terrorizzando la gente con la prospettiva di disastri crescenti se non si obbedisce ai “mercati”, sacrificando loro ogni volta qualcosa. “Sacrifici” che non bastano mai: ogni nuova misura viene prospettata come risolutiva per poi scoprire che non basta ancora e che ce ne vogliono altre. In questa rincorsa alle richieste dei mercati anche l’unione politica dell’Europa è stata declassata al rango di mera misura per far fronte agli spread: una misura contabile da affiancare all’unione bancaria, agli eurobond, al “fondo salva-stati”, alla mutualizzazione dei debiti, alla trasformazione della BCE in prestatore di ultima istanza, ecc. Non c’è progetto; non ci sono valori condivisi; non c’è road-map; non c’è alcuna idea né considerazione per la democrazia. Confrontate questo non-pensiero con gli ideali dei “padri spirituali” o con la cultura dei fondatori della Comunità Europea: avrete una misura della caduta dello Zeitgeist di tutto l’Occidente.
Di questa cultura da contabili Monti e Draghi sono oggi gli esponenti di punta, per molti versi intercambiabili. Solo mere contingenze temporali hanno assegnato all’uno il governo dell’Italia e all’altro quello della BCE. Qualche mese in più o in meno avrebbe potuto invertire le loro carriere e i loro ruoli: sono entrambi espressione dello spirito predatorio della banca Goldman Sachs che li ha allevati. Formula, missione e filosofia del “governo tecnico” di Monti sono la traduzione in lingua odierna di un cartello che ornava gli uffici pubblici del ventennio fascista: “Qui si lavora e non si fa politica”. La politica, cioè il governo e l’autogoverno della società, erano stati da tempo aboliti dai partiti che hanno preparato l’avvento di Monti e che oggi ne sostengono il governo. Sappiamo dove ci ha portato quel cartello: cultura soffocata, libertà distrutta, leggi razziali, guerra, milioni di morti, distruzione del paese. Non sappiamo ancora – ma possiamo immaginarlo guardando la Grecia, che ci precede di qualche mese lungo un cammino segnato – dove ci porterà un “governo tecnico” che si adegua ai diktat della finanza internazionale.
È evidente che lungo questo tragitto non solo la Grecia o la Spagna, ma l’Europa intera, Germania e satelliti compresi, sono votati al disastro. In tempi di globalizzazione non esiste una via di ritorno alle sovranità dei singoli paesi, come non esiste via di ritorno alle valute nazionali che non siano un disastro ancora peggiore. Il mondo è cambiato e ripercorrere le vie battute nei cosiddetti “trent’anni gloriosi” (1945-1975) non è più un’alternativa praticabile. Bisogna convertire il sistema a nuove produzioni compatibili con i limiti ambientali del nostro pianeta; ma anche questo non basta. Perché per poterlo fare ci vogliono una nuova cultura e una nuova classe dirigente che se ne faccia interprete (quelle attuali sono quasi interamente da rottamare); e la corresponsabilizzazione di una vasta cittadinanza attiva a loro supporto. Una svolta epocale. Saremo mai in grado di farcene promotori? Sì; e per molti motivi:
Innanzitutto, gli attuali esponenti dell’establishment europeo e occidentale – come l’apprendista stregone che non riesce a controllare le potenze occulte che lui stesso ha evocato – sono incapaci di trovare una soluzione alla strapotenza della finanza a cui hanno sciolto le briglie. L’impotenza della BCE non è il frutto di un errore di progettazione, ma della scelta di sottrarre ai governi il controllo di uno strumento fondamentale della sovranità – la creazione di moneta – per contenere le rivendicazioni salariali e l’espansione del welfare finanziato con la spesa pubblica;
In secondo luogo non bisogna sopravvalutare nemmeno le loro competenze: creare un GAS (Gruppo di acquisto solidale) o dirigere un cooperativa sociale o un quotidiano come il manifesto è spesso più difficile che diventare amministratore delegato di una grande banca grazie agli appoggi politici di persone altrettanto incompetenti. E i risultati si vedono!
Poi possiamo e dobbiamo ricostituire delle scuole di auto formazione – quel ruolo una volta svolto dai partiti, e da tempo abbandonato – contando su una molteplicità di competenze e di buone pratiche oggi completamente ignorate, svalorizzate, se non derise, dalla cultura ufficiale.
Ma soprattutto dobbiamo fare nostra l’idea che non esiste democrazia politica senza democrazia economica, cioè autogoverno nei e sui luoghi della produzione e del lavoro. È questo il grande buco nero del pensiero politico del secolo scorso: l’idea che si possa contare nella società anche se le decisioni su cosa, come, dove e per chi produrre vengono sottratte alla comunità che ne dipende. La storia del ventesimo secolo è stata di fatto un percorso di progressiva espropriazione delle classi popolari e lavoratrici dalle componenti più significative della loro esistenza. Da un lato, il fordismo, che dalla fabbrica ha progressivamente investito tutta la società, ha svuotato il lavoro del suo contenuto, della possibilità di far valere i propri saperi e il proprio saper fare nella determinazione dei rapporti con le altre componenti della società e, in particolare, nei rapporti di forza con il capitale. Dall’altro il consumismo ha svuotato la vita quotidiana, la riproduzione della vita sociale, l’insieme del lavoro di cura, riducendole all’acquisto di merci e al consumo di servizi sempre più “mercificati”: quelli che il mercato offre, che la pubblicità impone e che il nostro reddito consente. Ma da tempo questi processi sono arrivati al capolinea: non sono più sostenibili, né economicamente né ambientalmente, e milioni di persone si sono già messi alla ricerca di soluzioni alternative, di un “mondo diverso”.
Un recupero di democrazia, di possibilità e capacità di autogoverno, non può basarsi solo su aspetti formali, sulla possibilità di concorrere a decidere sulle leggi e sul loro rispetto, che pure sono aspetti essenziali. Una vera democrazia ha bisogno di affiancare alla rappresentanza formale sedi e strutture di partecipazione sostanziale in tutti gli ambiti: e innanzitutto in quelli della produzione, del lavoro e della cura. Partecipare non vuol dire solo “scegliere”, delegando alle proprie rappresentanze o al mercato il compito di rendere operative le nostre scelte. Vuol dire contribuire, con l’interezza delle nostre persone, dei nostri corpi, dei nostri affetti, dei nostri saperi, della nostra esperienza, alla realizzazione delle nostre scelte.
Se l'”uomo artigiano”, che riunisce nella stessa figura competenza tecnica, manualità e affettività – o per lo meno, grande attenzione – nei confronti dell’oggetto del suo lavoro (pensiamo al lavoro di chi ripara o mantiene oggetti o impianti non più funzionanti) è l’emblema di una figura professionale che va oltre – in positivo – al fordismo; e se il consumo critico, nella sua accezione più ampia, a partire dalle forme di condivisione promosse nei gruppi di acquisto solidale, adombra la strada di un modello di cura della vita quotidiana che va oltre la ripartizione tradizionale dei ruoli tra i generi, il cuore di una riconversione ecologica del sistema sarà il processo attraverso cui una intera comunità, coinvolgendo in esso i governi locali, l’associazionismo e l’imprenditoria disponibile, prende in carico le sorti delle produzioni che insistono sul proprio territorio di riferimento, a partire dai servizi pubblici locali, dalle aziende in crisi e votate alla scomparsa, dall’agricoltura di prossimità.
Certamente una nuova idea di Europa non può prescindere da un confronto a tutto campo con il potere della finanza, imponendo una radicale ristrutturazione dei debiti (una soluzione che ormai cominciano a prendere in considerazione anche diversi economisti mainstream), prima che sia la finanza a portare allo stremo, una dopo l’altra, le economie di tutti i paesi. Ma una prospettiva del genere ha senso solo alla luce di un programma di respiro globale che miri, insieme alla riconversione su nuove basi del sistema economico, all’instaurazione di un autentico autogoverno di ogni comunità sulla base di un recupero dell’autonomia personale di tutti i suoi membri.
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