Un articolo (a richiesta) sulle dichiarazioni di Marchionne a “Che tempo che fa” (26 ottobre 2010)
Per oltre quattro anni Sergio Marchionne è stato uno dei manager più discreti d’Italia: comunicava con il resto del paese attraverso i bilanci dell’azienda, gli interventi in consiglio di amministrazione e i suoi maglioncini. Da qualche tempo ha cominciato a fare delle clamorose uscite in pubblico.
Prima al meeting di Comunione e Liberazione, luogo geometrico di tutta la politica filo e paraberlusconiana del paese; poi a Firenze, all’associazione dei Cavalieri del lavoro, dove si è lasciato addirittura “scappare” che qualcuno aveva aperto i cancelli dello zoo (come se fino ad allora gli uomini e le donne dell’establishment fossero restati chiusi in una gabbia); domenica scorsa da Fazio, a fare promesse insensate (“porterò i salari Fiat al livello di quelli tedeschi”, che sono esattamente il doppio) e a leggere dati sconclusionati, secondo cui la produttività del lavoro in Italia sarebbe al 118° posto su 139 paesi censiti (dei 201 esistenti, San Marino e Vaticano compresi). Purtroppo il suo intervistatore non gli ha chiesto come e da chi fosse stato calcolato quel dato. A me risulta (fonte Eurostat) che su 25 paesi dell’UE l’Italia è sì al 15° posto per produttività (ma allora, gli altri paesi del mondo sono tutti nelle prime file sopra di noi?); ma siamo al 17° posto per spesa in ricerca, al 23° per investimenti in ICT (informatica), al 24° per la formazione. In compenso, secondo l’OCSE, i salari italiani sono i più bassi e gli orari di lavoro tra i più alti di quelli dei 33 paesi che ne fanno parte. Di chi allora la responsabilità? Degli operai che non lavorano abbastanza, se per caso un lavoro ce l’hanno? O delle imprese che non fanno ricerca, non fanno formazione, non fanno investimenti, non pagano i lavoratori?
E’ evidente che con le sue apparizioni in pubblico Marchionne cerca di nascondere il vuoto di investimenti, di “nuovi modelli” e ora (finiti gli incentivi) anche di vendite che caratterizza l’azienda, nonostante, pare, il pieno di profitti in arrivo. Del fantomatico piano industriale Fabbrica Italia, finora si sa solo che Termini Imerese sta per chiudere che a Mirafiori è stata sottratta la produzione programmata, mentre la sopravvivenza di Pomigliano resta in forse; tanto è vero che se a Marchionne fosse riuscito di aggiudicarsi la Opel, come si è aggiudicata la Chrysler, a costo zero, a farne le spese sarebbe stato proprio lo stabilimento campano.
Rendono, ci fa sapere Marchionne, solo gli stabilimenti esteri: in Polonia e in Brasile; senza il peso dell’Italia la Fiat starebbe meglio. Ma è ovvio che in un’azienda dove gli operai sono a cassa integrazione un giorno sì e uno no, e dove a Pomigliano non si lavora praticamente più da quasi due anni – tranne strizzare come limoni gli operai nei giorni in cui gli stabilimenti sono aperti – produttività e rendimento siano bassi.
Ma Marchionne, fino a che non potrà “governare” la fabbrica come vuole lui, non rivelerà i suoi piani: né ai suoi azionisti, né ai sindacati collaborazionisti che hanno sottoscritto il diktat di Pomigliano. Molti (persino Fini e Bonanni!) cominciano a intravvedere il bluff e a sospettare che dietro le ultime mosse – lo spin-off, che mette in salvo per gli Agnelli la parte redditizia dell’azienda, i licenziamenti di rappresaglia, la messa sotto accusa della Fiom, fin da ora indicata come responsabile dell’eventuale e sempre più probabile flop di Fabbrica Italia – ci siano solo i preparativi per ridimensionare e svendere buona parte degli impianti italiani. Ragione di più per cominciare a pensare seriamente a delle alternative produttive in campo ambientale.
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