Risposta a Carla Ravaioli
Devo una risposta a Carla Ravaioli che sul manifesto dell’8 luglio (Caro Viale, non fare un passo indietro) mi accusa di soprassedere alle premesse di quanto vado da tempo sostenendo, cioè la necessità di una “conversione ecologica” dell’apparato produttivo (e del relativo modello di consumi), cosa particolarmente evidente, tra l’altro, nelle industrie e negli impianti di produzione che non hanno avvenire perché senza più mercato. Le premesse da me “dimenticate” – se ho capito bene – riguardano il fatto che l’insostenibilità degli attuali sistemi di produzione e modelli consumo è intrinseca al capitalismo e che quella riconversione è possibile solo con il superamento della società capitalistica. Non è un’accusa nuova. Rivolta sia a me che ad altri, ricorre spesso nei dibattiti sulla crisi o sull’ambiente a cui mi capita di partecipare.
Quell’accusa è fondata: se l’auspicio di una conversione ecologica, senza ulteriori specificazioni riferite a fatti o contesti circostanziati che aiutino a definirne o precisarne contenuti o percorsi è una banalità, il rimando al “superamento del capitalismo” come condizione della sua realizzazione, senza entrare nel merito delle situazioni in cui si manifestano le criticità (quelle che una volta si chiamavano le “contraddizioni”), lo è ancor di più; e io, come altri, cerco di evitare sia l’una che l’altra. Cerco cioè di non avallare enunciati come quelli che sia Francesco Forte che Carla Ravaioli mi attribuiscono, secondo cui “il capitalismo è un imbroglio e l’economia di mercato una mistificazione”. Sarà anche vero, ma con pensieri come questi non si va lontano.
Perché ricondurre tutto al “capitalismo” dà a molti una falsa sicurezza e a volte addirittura un senso di superiorità: la convinzione di “saperla lunga”; così “lunga” che non vale la pena entrare nel merito di problemi particolari. Invece “ne sappiamo” sempre troppo poco; e quello che sappiamo lo dobbiamo per lo più ai contributi di studiosi o militanti che si sono confrontati con situazioni specifiche e circostanziate, anche se la forza del loro pensiero o della loro prassi deriva dalla capacità di inquadrare quei problemi in un approccio generale: agire localmente e pensare globalmente.
Ma un vero e proprio vuoto di pensiero – e di prassi – fa capolino nell’allusione, sempre più vaga, al “superamento del capitalismo”. Che cos’è? Una volta si diceva socialismo, comunismo, dittatura del proletariato, rivoluzione. Oggi quelle parole nessuno – o quasi – osa più pronunciarle: non perché manchi il coraggio, come pensa Carla Ravaioli; ma perché non sappiamo più che cosa vogliano dire; o se lo sappiamo, o pensiamo di saperlo, non lo vogliamo più. Uno Stato che pianifichi produzioni e consumi, e magari anche le nostre vite e la nostra morte, non lo desidera più nessuno. Molto spesso, dietro l’invocazione di un maggiore intervento dello Stato, di questo Stato, qui e ora, si nasconde solo la pigrizia mentale di chi ha comunque avallato le briglie sciolte al mercati, perché “non c’è alternativa”. Il che probabilmente sta alla base della dismissione di quella che per tutto il secolo scorso era stata la “sinistra”. La società di domani va pensata e costruita giorno per giorno, per tentativi ed errori, senza grandi modelli reali, o immaginari, a cui far riferimento; attrezzandosi, per quanto è possibile, per far fronte a passaggi drammatici e rotture improvvise.
Qualcuno dice “decrescita” ed è sicuramente un’idea sensata: i limiti del pianeta, come ci ricorda Carla Ravaioli, sono incontestabili. Ma quando di fronte alle otto “erre” di Latouche si prospettano problemi concreti, o percorsi da individuare e intraprendere, la sensazione che se ne trae è quella di un vuoto pneumatico. Se è una battaglia culturale – che ovviamente ha anche dei risvolti pratici – contro il feticcio della crescita, ben venga; forse andrebbe condotta con più modestia, cercando di fare i conti con i molti problemi a cui nessuno di noi sa ancora dare una risposta.
A ricondurre però a un denominatore comune molto del pensiero, della prassi e delle lotte più radicali e incisive degli ultimi anni è probabilmente la rivendicazione di una gestione condivisa, o partecipata, o per lo meno negoziata, dei beni comuni: sia che si tratti di impedirne una appropriazione privata; sia che si tratti di rendere disponibile a tutti beni, materiali o immateriali, che sono già da tempo sottoposti a un regime proprietario; in entrambi i casi, aprendo le porte o imboccando la strada di una gestione che non è né dello Stato né “del mercato”; bensì il perno della ricostituzione di uno “spazio pubblico” che è la sede costitutiva della politica intesa come autogoverno. La conversione ecologica è interamente affidata a itinerari del genere. Ma la distanza che separa questi sforzi e questi percorsi dall’ideale di una società equa e sostenibile e dalla capacità di condizionare o destituire le sedi da cui oggi si esercita il potere è, com’è ovvio, e con qualche eccezione importante e istruttiva, ancora molto grande. E non può essere colmata solo a parole.