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Il mito della crescita (il manifesto, 25 settembre 2011)

Inserito da on Ottobre 24, 2011 – 3:40 pmNo Comment

La “crescita” (che non c’è e, dove c’era, svanisce) è trattata sempre più come un obbligo. Ma quella di cui si parla è solo una crescita contabile (del PIL), finalizzata a riequilibrare i rapporti tra deficit – e debito – e PIL con un aumento del denominatore (PIL) e non solo con una riduzione dei numeratori (deficit e debito). Il tutto soprattutto per “rassicurare i mercati”. Dalla crescita ci si attende anche un aumento dei redditi tassabili (non tutti i redditi lo sono, o lo sono nella stessa misura: alcuni, per legge; altri, per violazione della legge) e, quindi, delle entrate dello Stato, rendendo più facile il pareggio di bilancio (assurto al rango di obbligo costituzionale) e, forse, anche una riduzione del debito (anch’essa resa obbligatoria dal cosiddetto patto euro-plus). Tuttavia meno spesa e più entrate non bastano a garantire il pareggio; non è detto che l’avanzo primario programmato (il surplus delle entrate sulle spese) sia compatibile con l’andamento dei tassi. Così gli interessi si accumulano in nuovo debito, una spirale, in contesti di deflazione come questo, senza fine.

La Grecia è da tempo in stato fallimentare (default): la sua economia non potrà più crescere per decenni; meno che mai in misura sufficiente ad azzerare il deficit o ripagare anche solo in parte il debito. Perché, allora, economisti e statisti non ne prendono atto? In parte perché non sanno che fare (era una “sopravvenienza” prevedibile, ma mai presa in considerazione); in parte per rapinarla; pensioni, salari, posti di lavoro, servizi pubblici, isole, riserve auree: tutto quello di cui ci si può appropriare (“privatizzandolo”) va preso prima di ammettere l’irreversibilità della situazione. La posizione dell’Italia non è molto diversa anche se il suo tessuto industriale è più robusto: una “crescita” sufficiente a pareggiare i conti non arriverà più; soprattutto strangolando così la sua economia. Ma qui i beni da saccheggiare – in barba ai risultati dei referendum – sono più succosi, mentre una presa d’atto del fallimento farebbe saltare, insieme all’euro, anche l’Unione europea. Per questo il gioco è destinato a durare più a lungo. Se però un governo ne prendesse atto, annunciando un default concordato – e selettivo: per colpire meno i “piccoli risparmiatori” – l’Europa correrebbe ai ripari e gli eurobond salterebbero fuori dall’oggi al domani. Ma così, dicono gli economisti, si blocca il circuito bancario e si arresta tutto il processo economico. Certo le cose non sarebbero facili; ma non lo sono, per i più, neanche ora. Però il circuito bancario si era già bloccato dopo il fallimento Lehman Brothers, e sono intervenuti gli Stati “nazionalizzando” di fatto, per un po’, le banche. Succederebbe di nuovo; e anche senza uscire dall’Euro, perché a intervenire dovrebbe essere la BCE.

Quella spirale del debito non è una novità: nella seconda metà del secolo scorso quasi tutti i paesi del Sud del mondo si sono indebitati per promuovere una crescita (allora si chiamava “sviluppo”) che non è mai venuta. Poi, non potendo ripagare il servizio del debito, sono stati tutti presi “sotto tutela” dal FMI, che ha loro imposto privatizzazioni e riduzioni di spesa analoghe a quelle imposte oggi dalla BCE e dal FMI ai paesi cosiddetti Piigs: con la conseguenza di avvitare sempre più la spirale del debito. La “letterina” (segreta) che la BCE ha spedito al governo italiano per dirgli che cosa deve fare quei paesi la conoscono bene: ne hanno ricevute a bizzeffe, e sono andati sempre peggio. Viceversa, le economie cosiddette emergenti sono quelle che avevano scelto di non indebitarsi, o che ne sono uscite con un default: cioè decidendo di non pagare – in parte – il loro debito.

La crescita di cui parlano gli economisti – e di cui blaterano tanti politici – è la ripresa, accelerata, del meccanismo che ha governato il mondo occidentale nella seconda metà del secolo scorso e che oggi torna a operare, tra l’invidia generale, nei paesi cosiddetti emergenti (i quali hanno ritmi di “sviluppo” accelerati solo perché sono partiti da zero, o quasi); mentre da noi quel meccanismo è ormai irripetibile anche in paesi considerati “locomotive” del mondo. Vorrebbero tornare a moltiplicare la produzione di automobili, di elettrodomestici, di gadget elettronici, in mercati ormai saturi e gravati da eccesso di capacità (vedi il fiasco di Marchionne); di moda e di articoli di lusso in un mondo in cui i ricchi non sanno più che cosa comprare perché hanno già tutto e di più (mentre le produzioni a basso costo sono state delocalizzate in paesi emergenti; per cui ogni eventuale, quanto improbabile, aumento dei redditi da lavoro non avrebbe comunque conseguenze sull’occupazione in Occidente); di turismo in ambienti naturali sempre più degradati e – soprattutto: questa dovrebbe essere la “molla” della ripresa – di “Grandi opere”. Si tratta di un modello di impresa fondato su finanziamenti pubblici (spesso contrabbandati come finanza di progetto); su catene senza fine di subappalti (con conseguente corruzione, evasione fiscale, caporalato e mafia: non sono guai solo italiani); guasti irreversibili ai territori; inganni e violenze sulle popolazioni locali per imporre l’opera per poi, alla fine dei lavori, destinare all’abbandono territori e tessuti sociali degradati. Il TAV in Val di Susa ne è il paradigma. Per la protezione dell’ambiente, invece, niente. Dicono che per favorire il ritorno alla crescita va – “temporaneamente” – sospesa. Così si succedono i summit mondiali che non decidono niente, mentre il pianeta corre verso il collasso. Per l’equità – tra paesi ricchi e paesi poveri; tra ricchi e poveri di uno stesso paese; tra l’oggi e le generazioni future – meno ancora.

La crescita per fare fronte al debito non riguarda quindi né l’occupazione (c’è da tempo un disaccoppiamento tra occupazione e aumento del PIL, dei fatturati e dei profitti); né la qualità del lavoro (è sempre più precario in tutto il mondo e si investe sempre meno in formazione); né i redditi da lavoro diretti o differiti (le pensioni); né il benessere delle comunità, messo sotto scacco dal degrado ambientale, dal taglio dei servizi e del welfare, dall’aumento delle persone disoccupate, “scoraggiate” o emarginate (sospinte sempre più numerose sotto la soglia della povertà); né dalla distruzione della socialità e della socievolezza. Infine, la “crescita” affidata ai meccanismi di mercato aborre dalle politiche industriali; e se le propone o le invoca, è solo per “dare una spinta” – con incentivi, sgravi fiscali, tassi di interesse sotto zero o investimenti pubblici in Grandi opere – a un meccanismo che poi dovrebbe andare avanti da sé: non ci sono obiettivi generali da perseguire, perché deve essere il mercato a selezionare quelli che corrispondono alle “propensioni” del consumatore (esaltato come sovrano quanto più viene soggiogato dai meccanismi della pubblicità e della moda); non ci sono problemi di governance – intesa come composizione degli interessi e partecipazione dei lavoratori e delle comunità alla gestione delle attività che si svolgono su un territorio – perché è l’impresa che deve avere il controllo assoluto su di esse (come sostiene Marchionne tra gli applausi generali). Le privatizzazioni sono la traduzione di questa logica: il trasferimento della sovranità da quel che resta degli istituti della democrazia rappresentativa al dispotismo di imprese sempre più grandi, potenti, centralizzate, lontane dai territori e dalle comunità. Anche questa è una spirale senza fine: più si smantella quanto di pubblico, condiviso, egualitario è stato conquistato negli anni, più si imputa la mancanza di risultati al fatto che non si è ancora smantellato abbastanza. Il liberismo è un dogma senza possibilità di verifiche praticato da una setta incapace di tornare sui suoi passi.

Per far fronte alla crisi – che è innanzitutto crisi delle condizioni di vità della maggioranza della popolazione – valorizzando le risorse che territori, comunità e singoli sono in grado di mettere in campo – ci vuole invece una vera politica economica e industriale; che oggi non può che essere un programma di riconversione ecologica di consumi e produzioni, tra loro strettamente interconnessi. Non c’è spazio – né ambientale, né economico, né sociale – per rilanciare i consumi individuali: generazione ed efficienza energetiche, mobilità sostenibile, agricoltura e alimentazione a km0, cura del territorio, circolazione dei saperi e dell’informazione (e non della patonza) non possono che essere imprese condivise, portate avanti congiuntamente dai lavoratori, dalle loro organizzazioni, dalle iniziative comunitarie, dalle amministrazioni locali, dalle imprese legate o che intendono legarsi a un territorio di riferimento (rime tra le quali, i servizi pubblici locali: non a caso sotto attavvo). Le produzioni che hanno un avvenire, e per questo anche un mercato vero, sono quelle che corrispondono a questi orientamenti; ad esse dovrebbero essere riservate tutte le risorse finanziarie impiantistiche, tecniche e soprattutto umane che è possibile mobilitare. Questo è anche un preciso indirizzo di governance per prendere in carico la conversione ecologica. Sostituire un’economia fondata sul consumo individuale e compulsivo con un sistema orientato al consumo condiviso (che non vuol dire collettivo o “omologato”: la condivisione esige attenzione per le differenze e per la loro realizzazione) non può essere programmata in modo verticistico; né gestita con i meccanismi autoritari delle Grandi opere. La conversione ecologica è un processo decentrato, diffuso, differenziato sulla base delle esigenze e delle risorse di ogni territorio, integrato e coordinato da reti di rapporti consensuali, basato sulla valorizzazione di tutti i saperi disponibili. Una politica economica e industriale che si ponga questi obiettivi può anche affrontare, in modo selettivo e programmato, l’azzardo di un default: per non destinare più le risorse disponibili – e soprattutto quelle che si possono ricavare da chi le ha e non ha mai pagato – al pozzo senza fondo del debito pubblico. Ma certo questo richiede l’esautoramento di gran parte delle attuali classi dirigenti (e di molti economisti). L’alternativa non è dunque tra crescita e decrescita, ma tra cose da fare e cose da non fare più.

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