Il default del debito pubblico dell’Italia (il manifesto, 5 ottobre 2011)
Il fallimento di uno Stato (il cosiddetto default) non è un evento puntuale ma un processo. L’evento puntuale è la dichiarazione con cui lo Stato comunica che non intende più o non è più in grado di pagare alcuni dei suoi debiti: cioè di rimborsare alla loro scadenza i titoli (bond) che ha emesso. L’evento può assumere varie forme: se la cosa avviene “inaspettatamente” può gettare nel caos il paese debitore, ma anche alcuni dei paesi creditori (quelli le cui banche o i cui risparmiatori hanno accumulato quei bond) e, poi, il resto del mondo; o quasi. Oggi la cosa sembra impensabile; ma abbiamo di fronte anni di turbolenza finanziaria che renderanno sempre più difficile prepararsi a eventi del genere. Oppure può assumere forme “pilotate”, con accordi che ripartiscano gli oneri del default tra debitore e creditore, cercando di contenere i danni; può avvenire in forma parziale, attraverso la promessa di rimborsare solo una parte del valore nominale dei bond; o in forma “selettiva”, differenziando l’entità del rimborso a seconda della tipologia dei creditori (garantendo un rimborso maggiore ai piccoli risparmiatori, uno minore ai grandi investitori nazionali e uno ancora inferiore o nullo a quelli esteri). Oppure può avvenire sterilizzando il debito, il cui valore nominale resta inalterato, ma il cui rimborso viene procrastinato nel tempo. Scelte del genere non comporterebbero necessariamente “l’uscita dall’euro” degli Stati insolventi: non ci sono “procedure per farlo” – e non è una cosa semplice – e scatenerebbero una fuga dall’euro di tutti gli Stati a rischio; cioè la dissoluzione della moneta unica, gettando l’Europa in un caos anche peggiore. Inoltre, non è detto che il ritorno a una moneta nazionale comporti, per lo Stato in default, un recupero di competitività con una svalutazione e il ritorno a una bilancia dei pagamenti in equilibrio. Se il tessuto produttivo non c’è, o è inadeguato, la svalutazione non basta per togliere quote di mercato ai più forti in campo tecnologico e amministrativo: soprattutto in un mercato in contrazione, come sarà quello europeo, e mondiale, nei prossimi anni. In ogni caso, di fronte a una stretta del credito (credit crunch) potrebbero svolgere un ruolo decisivo la creazione e la moltiplicazione di “monete” a base locale emesse, in circuiti ristretti, su basi fiduciarie. E’ un tema che meriterebbe maggiore attenzione. Le conseguenze delle alternative qui prospettate non sono ovviamente le stesse; ma in tutti i casi il default non è una passeggiata: una notevole contrazione della circolazione monetaria, della produzione, dell’occupazione legata alle attività in essere, dei redditi e del potere di acquisto è inevitabile, come lo sono una fuga di capitali – se le reti per intercettarli non sono adeguate – un blocco degli investimenti esteri e privati e l’impossibilità, per diversi anni, di ricorrere a nuove emissioni (cioè di fare altri debiti). Ma, a ben vedere, questi non sono che in minima parte “effetti” dell’evento default, bensì i fenomeni che lo precedono e lo preparano: sono il default come processo. Quello che stiamo vivendo.
Prendiamo il caso della Grecia. E’ palesemente in default da oltre un anno: da quando Papandreou ha preso atto delle condizioni in cui era stato lasciato il bilancio dello Stato. Non avrà più, per decenni, la possibilità di ripagare il suo debito, ma nemmeno di far fronte agli interessi per rinnovarlo alle scadenze. Le politiche imposte dalla “troika” dell’Unione europea (Commissione, BCE, FMI) ne strangolano l’economia rendendo irreversibile la corsa al default. Tuttavia solo da qualche settimana alcuni economisti mainstream cominciano a dirlo e qualche politico o banchiere a prospettarlo. Gli speculatori invece lo sanno da tempo (stanno acquistando bond greci a un terzo del loro valore nominale, perché, quando il default sarà dichiarato, la BCE glieli ricomprerà al doppio). Ma allora, perché la “troika” non impone subito alla Grecia un default pilotato? Perché nel frattempo, con la scusa di evitarlo, la depreda; cioè, la fa depredare dalla finanza internazionale che è il suo mandante: stipendi, occupazione, pensioni, sanità, scuole, servizi pubblici, spiagge, isole, porti, tutto viene messo in vendita – a prezzi di saldo, per costituire il “tesoretto” da devolvere ai creditori; e per cedere alla finanza internazionale i beni comuni del paese. Questo è il default come processo.
E l’Italia? Siamo sulla stessa strada, a una tappa di poco precedente: ma anche il processo del nostro default è in pieno corso. Le imposizioni della BCE all’Italia sono state dettagliate nella lettera “segreta” di Trichet e Draghi, che contiene un vero e proprio programma di governo; il che manda all’aria le lamentele di coloro che attribuiscono la crisi in corso alla mancanza di un vero Governo dell’Unione europea: quel governo invece c’è, eccome! Solo che non fa quello che chi ne denuncia la mancanza vorrebbe che facesse. Anzi, fa l’esatto opposto; e non per “insipienza”, ma per corrispondere agli interessi di chi manovra i cosiddetti “mercati”; che poi mercati non sono, bensì potere di vita e di morte sull’intero pianeta. Il programma di governo di Draghi e Trichet è uguale a quello che sta accompagnando la Grecia al default: privatizzazione dei servizi pubblici e dei beni comuni, taglio delle pensioni, degli stipendi e dell’occupazione nel pubblico impiego (scuola e sanità al primo posto); abolizione dei contratti, libertà di licenziare; azzeramento del deficit a suon di tasse sui meno abbienti.
Ha quel programma la minima possibilità di rimettere in sesto l’economia italiana? Di rilanciare la “crescita” (parola magica e assolutamente vuota in nome della quale si giustifica ogni assalto alle condizioni di vita di intere nazioni)? Dimenticando tra l’altro che la crescita (del PIL) si sta dileguando in tutta Europa e segna il passo, o sta per farlo, anche nei principali paesi “emergenti”, cui era affidata la speranza di un traino dell’economia mondiale fuori dalle secche della crisi. E dimenticando, soprattutto, che un nesso tra la crisi economica e l’impossibilità di una crescita illimitata in un pianeta finito ci deve pur essere (ma si contano sulle dita di una mano, anche tra gli economisti non mainstream, quelli che se ne ricordano). L’economia italiana, quand’anche raggiungesse il pareggio di bilancio con le manovre decise e quelle ancora da fare (cosa improbabile), avrebbe pur sempre 70 miliardi di interessi da sborsare ogni anno (il 5 per cento del PIL); in più, per rispettare il patto euro-plus, dovrebbe recuperare ogni anno il 5 per cento del 40 per cento del suo debito (40 miliardi circa: un altro 3 per cento di PIL): una “cura da cavallo” a cui anche un tessuto produttivo come quello italiano – che pure ha potenzialità maggiori di quello greco – non potrà che soccombere. In un mondo percorso da continue turbolenze finanziarie e da una crescita evanescente, l’economia italiana non potrà mai raggiungere performances sufficienti a centrare obiettivi del genere. Il default come processo è quindi in corso. Certo la situazione potrebbe cambiare se cambiassero le regole di governance dell’euro. Se la BCE emettesse gli eurobond (ma forse non basterebbe); se potesse creare moneta come fanno le vere banche centrali; se l’Unione europea adottasse politiche fiscali comuni a tutti gli Stati; se si varasse subito una consistente Tobin tax; se…Ma non sta succedendo nulla di tutto ciò; e niente lascia pensare che succeda. A meno che…
A meno che gli Stati messi alle corde – come hanno fatto banche e assicurazioni nel 2008 – non prendano atto che il coltello dalla parte del manico ce l’hanno i debitori e non i creditori, perché sono “too big to fail”, mettendo in campo la vera alternativa del momento: quella tra il default come processo e il default come evento, fatto compiuto. Allora sì che l’Europa correrebbe ai ripari! Certo ad adottare una politica del genere non sarà l’attuale governo, né quello che si sta allenando a bordo campo con la benedizione di Confindustria: quella che ha coccolato per diciassette anni Berlusconi dimostrando – tra l’altro – di essere un allenatore da strapazzo. Questa alternativa è un varco obbligato per chiunque accetti di dare voce alle forze, sempre più ampie, sempre meno disperse, sempre più transnazionali, che ieri dicevano “la vostra crisi non la paghiamo” e che oggi hanno tradotto questo comune sentire in un obiettivo preciso: “il debito non si paga!” Certo un obiettivo del genere non basta: ci vogliono anche non “grandi opere” per rilanciare “la crescita”, come è nella proposta degli eurobond e negli sproloqui di Confindustria, bensì programmi di conversione ecologica: promozione delle energie rinnovabili, efficienza energetica, agricoltura e mobilità sostenibili, riciclo totale nella gestione di risorse e rifiuti, manutenzione del territorio e rinaturalizzazione di quello non costruito, accoglienza e istruzione per tutti e tutte le età, ricerca mirata alla conversione; e poi, reperimento delle risorse “mettendo le mani nelle tasche” di quegli italiani che Berlusconi e Tremonti hanno protetto per anni; e azzerando gradualmente produzioni e opere inutili o dannose. Ma se non si affronta in modo radicale il nodo del debito, la politica scompare (anzi, non ricompare più) perché vuol dire che si accetta come fatto compiuto il trasferimento della sovranità dal popolo ai “mercati”.