Euro, da sogno a incubo (“il manifesto”, 27 novembre 2012)
I veri europeisti sono coloro che sostengono che non si può procedere verso un’Europa dei popoli se non si ha innanzitutto il coraggio, e poi la forza, di imporre una revisione radicale di tutto l’assetto finanziario su cui si è retta finora la sua costruzione. Ma bisogna che le forze sociali che lo vogliono veramente si uniscano in un movimento comune.
L’euro sta portando a fondo l’Unione Europea e con essa il sogno federalista dei suoi ispiratori e il progetto politico dei suoi fondatori. Come mezzo di pagamento, moneta in tasca o sui conti correnti di ciascuno di noi, l’euro è stata una grande novità positiva per centinaia di milioni di cittadini europei, a cui ha dato finalmente la percezione materiale di una abolizione dei confini nel continente; la possibilità di pagare i propri acquisti all’estero – anche al di fuori dei confini dell’eurozona, e in diversi continenti – senza dover fare complicati calcoli mentali per capire quanto gli stessero costando effettivamente; e, per noi italiani, anche la prova evidente che con i salari e le pensioni tra le più basse d’Europa molti prezzi – bar, ristoranti, alberghi, farmaci, teatri, ecc. – sono i più alti del continente. Ma come mezzo di accumulo di valore, che è la radice e la ragion d’essere della finanza, l’euro ha enormemente favorito il meccanismo di universale indebitamento – di famiglie, di imprese, di banche, di Stati – su cui da almeno due decenni (e in molti casi da molto più tempo) si regge l’intero sistema economico mondiale, mettendo nelle mani di un ristretto numero di «operatori» dell’alta finanza la vita e il lavoro di miliardi di esseri umani.
Queste due funzioni della moneta sono difficilmente scindibili, anche se alcune ipotesi su come allentare la stretta dell’una sull’altra sono state fatte e andrebbero urgentemente riprese in considerazione. Ma negli scorsi decenni tutto quello che era possibile fare per renderle invece inestricabilmente connesse è stato fatto: a partire dall’azzeramento della separazione tra banche commerciali, che trattano soprattutto mezzi di scambio, e banche di investimento, il cui scopo è promuovere l’accumulazione del capitale; e dalla «libera circolazione dei capitali»: molto più libera di quella delle merci e soprattutto di quella delle persone, spesso costrette a salire su barconi fatiscenti o a traversare deserti nel cassone di un camion per spostarsi da un paese che non li vuole a uno che li vuole ancor meno, invece di viaggiare con semplici impulsi elettroni verso paesi sempre pronti ad accoglierli a braccia aperte.
Le conseguenze di quelle due misure di «liberalizzazione» sono davanti agli occhi di tutti: una generale situazione di insolvenza che ha coinvolto e coinvolge famiglie, imprese, banche e Stati, e che viene rimpallata dagli uni agli altri nel vano tentativo di procrastinare una generale resa dei conti. Prendete il caso della Grecia, dove i debiti di banche e governo sono stati e continuano a venir scaricati sulla popolazione, nel tentativo – fallito – di farne uscire indenni prima le banche straniere – soprattutto tedesche e francesi – che li avevano finanziati; e poi la Bce (Banca centrale europea), e il Fmi (Fondo monetario internazionale), che li hanno rifinanziati; e poi gli altri Stati dell’eurozona, che hanno finanziato o garantito i finanziamenti della Bce e quello dei nuovi marchingegni, come l’Efsf (il cosiddetto Fondo salvastati), con cui si sta cercato di rimandare la resa dei conti: con una catena di rimandi che, come ha rilevato Alessandro Penati su Repubblica del 24.11, non è che un gigantesco «schema Ponzi», ovvero una «catena di Sant’Antonio». A questo si è ridotta infatti la politica finanziaria della Bce.
Ma è almeno due anni che qualsiasi persona di buon senso e molti commentatori di questo giornale ripetono che la situazione finanziaria della Grecia è insostenibile e che il suo fallimento (default) è già iscritto nei fatti. Viene da chiedersi come mai un inossidabile liberista come Penati se ne sia accorto, o ne dia riscontro, solo ora. Ma il peggio deve ancora venire e quello che Penati non dice è che cosa succederà, all’euro e a tutta l’Unione Europea, quando il default della Grecia dovrà essere sancito. Ma forse a quel momento non si arriverà mai, perché a ritrovarsi ridotti nella condizione della Grecia, e prima ancora del suo fallimento ufficiale, saranno altri Paesi dell’eurozona, e ben più «importanti»: per esempio la Spagna o l’Italia. Penati non spiega infatti è come sia possibile che l’economia italiana o spagnola – e molte altre – possano evitare di avvitarsi sempre più su se stesse, esattamente come la Grecia, quando, oltre al pareggio di bilancio, dovranno fare fronte anche al cappio del fiscal compact: cioè rastrellare con le tasse e l’assalto alla spesa sociale altri 50 (Italia) o 30-40 (Spagna) miliardi all’anno per ripagare la loro quota di debito, oltre al peso degli interesse, che per l’Italia ammonteranno ad oltre 100 miliardi all’anno; mentre già le banche di entrambi i paesi (ma presto anche quelle francesi e probabilmente anche tedesche) sono in affanno per fare fronte agli impegni di ricapitalizzazione imposti dall’accordo Basilea 3. Una ristrutturazione o un consolidamento dei debiti dei principali paesi europei appare sempre più inevitabile; ma nessuno ne vuol sentir parlare. Perché?
La vulgata corrente è che c’è una road map in grado di portare il continente fuori dalle attuali secche: prima l’entrata in vigore del Fsef; poi l’unione bancaria con un sistema di vigilanza unificato; poi gli eurobond per mutualizzare i debiti sovrani, o addirittura i project-eurobond per rilanciare anche lo sviluppo; poi la trasformazione della Bce in prestatore di ultima istanza, per arrivare così all’unione politica, che legittimerà tutte queste operazioni, per ora affidate a organismi privi di legittimazione democratica.
Intanto l’Unione europea non riesce nemmeno a trovare un accordo sul proprio bilancio. Tutti, chi più, chi meno, sono orientati a restringerlo, a ricondurlo a generale austerità del continente, lasciando possibilmente immutati i fondi destinati alle politiche clientelari (Pac, Fondo sociale, sussidi all’industria) e tagliando quelli destinati alle politiche più innovative. Il fatto è che nel corso degli ultimi anni tutte le maggioranze di governo, chi più e chi meno, hanno giocato sulla crisi dell’euro per fidelizzare il proprio elettorato aizzandolo contro i vincoli che dovrebbero tener unita l’Unione, e attribuendo ad altri la responsabilità di una crisi che comincia a mordere tutti, paesi «forti» compresi. Chi accusa giustamente i paesi più forti di aver beneficiato dell’euro per esportare a credito, per tener basso il proprio tasso di cambio – e ora anche quello di interesse – e per incamerare interessi da favola sul denaro prestato. E chi accusa i paesi più deboli di aver accumulato deficit di bilancio e delle partite correnti a sbafo, come se tutte queste cose dipendessero da comportamenti dei lavoratori e delle popolazioni dei vari paesi, e non dalle politiche commerciali e di bilancio adottate da banche, imprese e governi che hanno goduto e spesso si sono tenuti in pedi solo grazie all’ombrello protettivo della Bce e della Commissione. In testa a questa corsa a uno sciovinismo senza ritorno c’è il governo tedesco, ma i malumori ben lubrificati sia contro paesi sfruttatori che contro i paesi spendaccioni, di cui si nutrono i diversi nazionalismi e fa le spese l’Unione, allignano ormai ovunque.
È possibile allora che in queste condizioni il progetto di un’unione politica dell’Europa possa sopravvivere e andare avanti, inanellando una dietro l’altra le misure tappabuchi di uno «schema Ponzi»? E senza metterne in discussione le fondamenta, cioè la scelta di far pagare la crisi ai lavoratori e a una popolazione sempre meno protetta dal welfare per tenere in piedi con interessi e rimborsi stratosferici una finanza che continua a speculare, e a guadagnare miliardi, sulle disgrazie altrui? No, non è possibile.
Per questo i veri nemici dell’unificazione politica europea sono coloro, come Monti e tutti coloro che lo sostengono e lo osannano, che presentano e considerano senza alternative i diktat finanziari che provengono dal mondo dell’alta finanza e dalla sua intermediaria politica che è la Bce; diktat che, come mostra il caso della Grecia e dei vari memorandum a cui è stata sottoposta, portano allo sfacelo un’intera nazione mettendo in pericolo anche tutto il resto del continente.
Mentre i veri europeisti sono coloro che sostengono che non si può procedere verso un’Europa dei popoli se non si ha innanzitutto il coraggio, e poi la forza, di imporre una revisione radicale di tutto l’assetto finanziario su cui si è retta finora la sua costruzione: una ristrutturazione o un consolidamento di lungo periodo dei cosiddetti debiti sovrani (che sovrani proprio non sono) in attesa di trovare un accordo sulla loro mutualizzazione, cioè condivisione; una rinegoziazione degli accordi – pareggio di bilancio, fiscal compact e Fsef, per cominciare – con cui si pretende di «rimettere in sesto» la finanza dei paesi europei a spese delle fasce sociali meno protette; una separazione netta tra banche commerciali e banche di investimento e una concentrazione dei debiti di queste ultime in una o tante bad-bank i cui costi mettere a carico dei grandi investitori; una seria limitazione della circolazione dei capitali: innanzitutto con l’introduzione una tassa consistente e generalizzata su tutte le transazioni finanziarie. A queste condizioni, forse, l’euro potrà sopravvivere; e l’Europa procede verso una unione politica veramente democratica. Ma bisogna che le forze sociali che lo vogliono veramente si uniscano attraverso in un movimento comune.
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