Conoscenza. Insieme per la casa comune, intervento al convegno promosso dal MEIC.
E’ in corso da alcuni decenni un processo di riavvicinamento tra alcuni ambiti disciplinari, a cui corrispondono altrettanti approcci a diversi aspetti fondamentali del reale che, insieme, segnalano lo sviluppo di una svolta culturale di carattere epocale. Epocale è una svolta che accompagna il passaggio da un’epoca all’altra, ciascuna delle quali viene individuata attraverso la predominanza di uno o più principi che informano e caratterizzano i principali tratti della società, dell’economia e della cultura. A mio avviso, alcuni tra questi ambiti, senza escluderne altri, sono questi:
Quello della salute, mano a mano che l’attenzione – e non ancora, necessariamente, l’investimento di risorse fisiche, finanziarie e umane – si sposta dalla dimensione terapeutica a quella della prevenzione. Decisivo, in questa dimensione, diventano l’ambiente fisico in cui viviamo, l’aria che respiriamo, l’acqua e il cibo che inghiottiamo, i suoni che percepiamo, le sostanze con cui veniamo in contatto, le radiazioni che ci colpiscono, e, di conseguenze, tutti i processi e i meccanismi attraverso cui queste cose vengono prodotte. In qualche modo questo dilata i confini del nostro corpo, e la cura che gli dovremmo dedicare, ben al di là dell’involucro della nostra epidermide.
In secondo luogo, con un processo inverso, l’ambiente è tornato a essere qualcosa che include anche l’essere umano – cioè noi – invece di escluderlo e di essere vissuto come qualcosa di separato e contrapposto. Nel 1986, quando in Italia, buon’ultima, è stato costituito il Ministero dell’Ambiente, c’era stato un vivace confronto tra chi voleva che venisse istituito un nuovo dicastero e chi pensava che le sue competenze dovessero rimanere all’interno del Ministero della Sanità (oggi Salute). Questo perché in Italia gran parte della cultura ambientale si era sviluppata intorno ai luoghi di lavoro, come attività di tutela della salute del lavoratore e, in subordine, delle comunità che vivevano intorno ai luoghi di lavoro. Diversi sono, per esempio, il caso della Germania, in cui la protezione dell’ambiente era nata come estensione di una cultura consumeristica, di difesa del consumatore, o quello degli Stati uniti, dove un peso predominante l’ha avuto il conservazionismo dei siti di elevata valenza naturalistica. Ma oggi è comunque evidente che un approccio all’ambiente puramente medico e sanitario è eminentemente antropocentrico: non dà il dovuto rilievo, come dovrebbe, alla vita degli ecosistemi e alla riproduzione degli equilibri idrici, geologici e metereologici a cui va riconosciuta un’autonomia non riducibile alle esigenze umane del momento, e nemmeno a quelle di una determinata epoca. Questa constatazione si collegava a un altro interrogativo che aveva accompagnato quel dibattito. La Costituzione italiana dà un rilievo adeguato alla protezione dell’ambiente? Per alcuni la risposta era sì, perché l’art. 9 prevede che la Repubblica tuteli il paesaggio. La protezione dell’ambiente vera e propria sarebbe stata inserita solo successivamente, all’ultimo posto tra le competenze esclusive dello Stato, nella formulazione dell’art. 117 introdotta con la riforma del Titolo V, senza peraltro ulteriori precisazioni. Oggi è comunque del tutto evidente che l’ambiente non è riducibile al paesaggio, anche inteso nel senso più lato del termine. Comprende anche tutto il sottosuolo, e soprattutto il suo isterilimento sotto il manto di cemento e asfalto creato dal consumo di suolo e il regime delle acque sotterranee; e poi tutti quei parametri che l’occhio non vede e l’orecchio, il naso o la lingua non sentono, perché sono misurabili solo con degli strumenti scientifici, ma sono cruciali per definire lo stato dell’ambiente: primi tra tutti i gas climalteranti.
In terzo luogo, soprattutto l’attenzione, recente nella sua diffusione di massa, per quella parte del mondo della natura che è il vivente ha contribuito a ri-ancorare l’esistenza umana alla sua dimensione fisica e alla sua natura animale, riducendo drasticamente quella faglia che il pensiero cristiano e, sulle sue tracce, la filosofia moderna, avevano introdotto tra l’essere umano, dotato di un’anima immortale – e quindi anche di una spiritualità, di una sensibilità, di una intelligenza, di una razionalità che l’animale non ha – e il resto del mondo vivente, creando tra di essi una frattura ontologica.
Infine, anche il nostro approccio all’alimentazione ha molto risentito di questi cambiamenti: sia, come si è visto, con una maggiore attenzione per il cibo che mangiamo e per i processi che lo hanno generato, sia per una maggiore sensibilità, anche da parte di chi non ha rinunciato a mangiare carne, verso la sofferenza portata direttamente sulle nostre tavole dal modo in cui vengono gestiti gli allevamenti animali. Paradigmatica nell’illustrare questo processo può essere presa la parabola di Slow Food: un’associazione nata per promuovere il buongusto in campo culinario che, risalendo lungo la filiera del cibo per individuare le modalità giuste della sua produzione, è arrivata a fondare una rete internazionale di contadini, pastori, pescatori e cuochi in lotta contro le multinazionali del cibo spazzatura che ne soffocano l’attività. Ma al di là del metabolismo del corpo umano c’è un metabolismo del corpo sociale altrettanto inquinato da input produttivi che lo avvelenano e generatore di rifiuti che l’ambiente non è più in grado di riassorbire o che il sistema economico non trova conveniente adoperarsi per reimmetterli in un nuovo ciclo produttivo come materia prima seconda.
La concezione intorno a cui è andato producendosi questo avvicinamento reciproco di approcci precedentemente separati può essere individuato nel concetto di Terra (o Madre Terra, o Pacha Mama, o Gaia) intesa, in senso olistico, come un tutto organico che ci include come esseri umani, nei cui confronti dovremmo cercare di promuovere una convivenza, e possibilmente una consonanza, senza contrapporci ad essa per sottometterla. Si tratta di un rovesciamento radicale del principio cardine con cui la modernità si è separata e contrapposta al mondo antico (e soprattutto a quello medioevale), misurando proprio rispetto a questo processo il suo progresso verso la felicità del genere umano. I momenti salienti di questa svolta sono tanti, ma il suo manifesto può senz’altro essere riconosciuto nel programma enunciato da Francesco Bacone: quello di sottomettere la Natura per strapparle i suoi segreti. Lo aveva fatto senza mezzi termini: la Natura, per Bacone, andava “costretta e tormentata, rimossa a forza dal suo stato ordinario e premuta e forgiata secondo l’arte e il ministero umano” per, come dice altrove, “costringerla al tuo servizio e renderla schiava”. Forte, come è noto, è il parallelismo rilevato tra questo modo di promuovere il dominio dell’uomo sulla Natura e il principio patriarcale di un dominio incontrastato dell’uomo sulla donna. Per cui, senza addentrarci ulteriormente in quest’ambito, che non ho né il tempo né le competenze per svilupparlo qui possiamo senz’altro includere anche gli sviluppi e la diffusione del femminismo tra i fattori fondamentali che hanno contribuito e contribuiscono a quel cambiamento di prospettiva che abbiamo individuato nella ricerca di una riconciliazione tra l’essere umano e la Terra. Dovrebbe essere chiaro il modo in cui questo paradigma trasforma il detto antico mens sana in corpore sano quando il concetto di corpo entro cui si risolve la nostra soggettività non coincide più con il confine della nostra epidermide, ma si estende a tutte le relazioni e le interazioni di cui esso entra a fare parte.
In questo nuovo orizzonte concettuale anche la mente, e con essa la conoscenza, che ne è l’attività principale, cessa di essere una funzione specifica del cervello, o del corpo umano come definito dall’anatomia, per estendersi, in quella che Gregory Bateson aveva chiamato “ecologia della mente”, a tutte le interrelazioni che determinano o condizionano il comportamento umano. Non c’è bisogno qui di ricordare i guasti a cui il corpo umano, in questa sua accezione, e quindi anche la mente e la conoscenza, sono stati sottoposti dagli sviluppi della società industriale. Il fatto è che non possiamo più riferirci né al nostro corpo, né alla nostra mente, né alla nostra conoscenza a prescindere da una considerazione complessiva dell’ambiente, non solo sociale, ma anche fisico, in cui sono immersi. È ovvio che in questo approccio la conoscenza, cioè la verità, non possa essere intesa come mero rispecchiamento della realtà, ma solo come un processo dinamico che definisce il nostro modo di collocarci nel mondo. Che cosa comporta allora questo approccio complesso in termini di prospettive e di orientamento del nostro operare? La cultura ambientale profonda ha cercato, in tempi recenti, di riassumere in alcune formule la necessità di questo approccio comprensivo.
La prima, che secondo me è ancora oggi la più completa, è conversione ecologica: un termine introdotto da Alex Langer e oggi largamente diffuso. Completa perché riguarda sia la dimensione soggettiva che quella oggettiva della conversione, cioè della svolta da imporre sia al nostro modo di conoscere e di operare sia al suo contesto. Soggettiva, perché riguarda il nostro atteggiamento e il nostro comportamento verso gli altri e il mondo che ci circonda, il nostro stile di vita e i nostri consumi, da indirizzare verso una maggiore sobrietà, una minore aggressività verso le risorse della natura e il nostro prossimo. Oggettiva, perché una trasformazione del genere non è né possibile né efficace senza una trasformazione radicale degli assetti sociali in direzione di una maggiore equità e delle strutture produttive relativamente alle questioni del che cosa, con che cosa, per chi, come e dove si produce quel che si produce. Conversione, sottolineava Alex, è diverso da tutti gli altri termini a cui era ricorso nel corso della sua vita politica, come contestazione, rivoluzione, riforma, trasformazione, transizione, ecc., proprio perché allude a una irrinunciabile dimensione soggettiva, anche spirituale (Alex era un credente). Anche ecologico, in italiano, suona diverso da ambientale, perché allude a una continuità ontologica tra l’uomo e il suo ambiente.
La seconda di queste formule è Legge del ritorno, introdotta dall’attivista e scienziata indiana Vandana Shiva, che indica la necessità di realizzare quella continuità tra natura e società restituendo all’ambiente, in forme compatibili con gli equilibri degli ecosistemi in cui vengono immessi, tutti i materiali che le abbiamo sottratto per farli entrare nel ciclo della produzione o del consumo umani. E’ il principio di quella che oggi viene chiamata economia circolare: non il prodotto di una visione rurale e pre-moderna dei processi economici, ma la chiara indicazione della strada lungo cui la società industriale, quella sviluppata e intimamente legata al consumo dei combustibili fossili, può essere superata senza rinunciare ai vantaggi che ha procurato.
La terza formula è quella del buen vivir, strettamente legato alla visione insita nel concetto di Madre Terra o Pacha Mama, ripreso dalle culture indigene dell’America latina: è il benessere che si ricava dal vivere in armonia con la natura. E’ una concezione del posto dell’uomo nel mondo che ha avuto anche una proiezione giuridica nella istituzione dei diritti della Natura e del vivente. Principio poi introdotto in alcune costituzioni, tra cui la prima e la più completa è forse quella dell’Equador.
Recentemente ha avuto una forte diffusione la formula che abbina giustizia sociale e giustizia ambientale. Non si tratta più di questioni separate, perché non è possibile perseguire la prima senza la seconda. L’ecologia non viene più considerata, come è successo per molto tempo e succede ancor oggi in molto del pensiero mainstream, un lusso per privilegiati, o dei paesi ricchi, che i poveri o i paesi in via di sviluppo non si possono permettere. E’ stato ormai dimostrato che gli impatti ambientali si scaricano soprattutto sulle condizioni di vita e di lavoro dei poveri e degli emarginati, sicché la loro emancipazione è indissolubilmente legata alla difesa e al risanamento dell’ambiente.
Questo concetto è presente e ricorrente, tanto da costituirne l’asse portante, in tutta l’enciclica Laudato sì di papa Francesco, che non a caso utilizza più volte il concetto di conversione ecologica, senza citare esplicitamente Alex Langer, così come non cita mai Vandana Schiva o altri esponenti del pensiero ecologista.
Rispetto a Langer, che sottolineava il fatto che “la conversione ecologica potrà affermarsi solo quando sarà socialmente accettabile”, Francesco, nella parte conclusiva della sua enciclica, sembra fornire una risposta alla domanda: che cosa si deve intendere per “socialmente accettabile?” con un rimando esplicito al Cantico delle creature, a cui si ispira tutto questo documento. La strada per rendere socialmente accettabile la conversione ecologica è la ricerca e la realizzazione di una vera consonanza con tutto il vivente, che è la meta del percorso che – credo – ci vede tutti impegnati.