E adesso?
“Due Stati” o “ Un uno Stato unico” restano slogan senza futuro. Un’occasione per imboccare una strada nuova.
Oggi, 22 settembre, all’Assemblea Generale dell‘ONU, alcuni Stati importanti, tra cui Francia, Canada e Regno Unito (ma non l’Italia) hanno riconosciuto ufficialmente la Palestina, aggiungendosi ai 147 che lo hanno già fatto, e aderendo così alla soluzione dei due Stati. Ma è una mossa puramente simbolica, senza conseguenze pratiche, se non un maggior isolamento internazionale di Israele e della sua politica genocidiaria (protette e avallate comunque dagli Stati Uniti), che potrebbe comunque avere un peso nel promuovere il cessate il fuoco: la cosa più urgente. Si tratta però di un alibi, buono per non interrogarsi su come uscire dal genocidio in corso nella prospettiva di un futuro necessariamente condiviso delle due comunità nazionali.
Due Stati, come erano stati definiti a Oslo, sono ormai irrealizzabili e tutti lo sanno. Quello che resta della Palestina, cioè dei territori dove si trova gran parte dei palestinesi non “naturalizzati” israeliani, è, in una delle sue parti, una groviera, dove i buchi non sono più gli insediamenti e gli avamposti dei coloni israeliani (cresciuti ancora enormemente, ma non censiti, dopo il 7.10), bensì i residui villaggi e quartieri palestinesi non ancora occupati. E, nell’altra delle due parti, una terra lunare, spianata, dove si aggirano – o no, perché non hanno più dove andare – due milioni (gli altri son già morti) di fantasmi, condannati a morire, ora o negli anni a venire, di bombe ed esecuzioni sommarie, oppure di fame, sete, stenti, malattie e disperazione. Il formaggio, la sostanza di quella gruviera, invece, è ormai una rete di insediamenti illegali, circondati da muraglie, collegati da strade “esclusive” e disseminati di check-point in mano all’arbitrio di un esercito di occupazione, dove la muffa cresce poco a poco sull’orlo dei buchi del formaggio, fino a chiuderli del tutto. Pensare di sgomberare 6-700 mila coloni o più, fanatici e armati, protetti dall’esercito e dalla magistratura, per restituire ai palestinesi i territori rubati, è puro nonsenso. Quello Stato, la Palestina di Oslo, non avrebbe comunque avuto né continuità territoriale, né spazio aereo e sbocco al mare comuni, né una economia autonoma e, soprattutto, nessuna capacità di confrontarsi “ad armi pari” con le forze soverchianti dell’altro Stato, quello nato e consolidatosi sul suo territorio in 80 anni di feroci soprusi. Dunque, se allora (1993) quella soluzione era inaccettabile, oggi è diventata impossibile.
Un unico Stato, allora, “dal fiume al mare”? Non come frutto della cacciata (o dello sterminio) degli ebrei dalla terra di Palestina, come invocano Hamas e i suoi sostenitori; e meno che mai come conseguenza di cacciata, sterminio e sottomissione della popolazione palestinese da parte di Israele: obiettivo di fatto perseguito, e non da ora, da tutti i governanti israeliani; a volte – e ora sempre più spesso – proclamandolo apertamente; ma per lo più praticandolo senza ammetterlo.
Certo è difficile, come è ovvio, la convivenza in un unico Stato di comunità nazionali che si sono combattute, massacrate, odiate e misconosciute da generazioni. Ma, dicono, è un problema che può essere affrontato e risolto negli anni, come è successo, bene o male – e anche molto male – in molti altri casi storici. Ma quale Stato? Come si chiamerà (questione di non poco conto per l’identità dei suoi futuri cittadini)? E chi ne controllerà l’esercito, gli arsenali, compreso quello nucleare, la Banca centrale, la valuta, l’economia e le sue imprese multinazionali? Uno Stato che non controlla questi e altri strumenti non è uno Stato. Difficile pensare che chi li controlla ora possa – non dico voglia – condividerli. Ma se non vengono condivisi, lo Stato unico non si può fare.
Occorre allora ripiegare su una confederazione di comunità locali il più possibile autonome, per lo più mono-nazionali, ebraiche o palestinesi; e alcune – poche per ora – miste. E tutte collegate tra loro, in base al principio di sussidiarietà, solo da funzioni indisponibili localmente, come logistica, comunicazione, risorse idriche, ecc. Una prospettiva che non può non includere l’applicazione graduale e concordata della risoluzione 194 dell’Onu che prevede il ritorno di tutti i palestinesi che sono stati cacciati dal 1948 e senza la quale anche la risoluzione 181, a cui Israele fa risalire la legittimità della sua costituzione in Stato, perde ogni validità; se non altro, per pareggiare i conti con Israele che ha dato e dà la cittadinanza a tutti coloro che dimostrano o sostengono di esseri ebrei: il che renderà quel territorio uno dei paesi più affollati del mondo. Ma le risorse tecnologiche e umane per farvi fronte certamente non mancano. Sicurezza interna (“ordine pubblico”) e internazionale (eserciti e strumenti bellici) andranno sottratte per un lungo periodo a entrambe le nazionalità e affidate a un organismo super partes costituito da vari paesi su mandato dell’Onu.
Pura fantasia? Certo. Senonché non esistono altre alternative alla perpetuazione e all’incancrenimento – se quello attuale ancora non bastasse – di quello che sta succedendo. Questo è un modello di riorganizzazione della convivenza valido anche a livello mondiale, soprattutto in un’epoca come questa, in cui la lotta politica scivola, come negli Stati Uniti, ma non solo, verso la contrapposizione delle opposte fazioni che non disdegna armi e guerra civile e in cui sovranismo e militarismo trascinano il mondo verso la deflagrazione.
(Articolo pubblicato sul quotidiano il manifesto, domenica 21 settembre)