Risposta a Guido Viale
Caro Guido,
scusa innanzitutto per il ritardo della risposta, dovuto sia al giusto ruminare le belle cose che hai scritto sia, forse, a una condizione diffusa di difficoltà ad assecondare la legittima passione (e responsabilità) per la dimensione “politica”, difficoltà dovute a una condizione di sempre maggiore asservimento che egemonizza le nostre vite (anche con questa finalità, tutto sommato: non permetterci di occuparci dell’energia che potrebbe farcele cambiare, queste vite così insoddisfatte).
Il primo gesto da non dimenticare è così ringraziarti per le tue parole e per la tua sincerità, che è un modo per aver cura delle cose. Ho deciso infine di scriverti almeno parzialmente e in modo libero, a partire da un coinvolgimento biografico che, in una certa strana maniera, ha occupato un bel pò dei miei ultimi mesi in forma inaspettata.
Comincio dunque a rispondere su un tema che tu poni all’inizio delle tue riflessioni, quello dell’ambiguità della definizione di “soggetto politico nuovo”. Mi pare infatti che sia proprio questo uno dei punti decisivi per capire come poter rilanciare il senso dell’iniziativa di ALBA.
Tu fai un legittimo riferimento alla decostruzione che la categoria di soggetto ha subito nell’ultimo secolo (diciamo da Nietzsche in poi). Questa decostruzione filosofica coinvolge direttamente la sfera politica, nel momento in cui la critica al soggetto si rivolge alla violenza che tale categoria reca con sé in quanto esso finisce per irrigidire il nostro modo di stare dentro il mondo delle relazioni. Alto-basso, essenziale-accidentale, maschile-femminile, identità-differenza. Il soggetto garantisce un ordine sociale fondato sull’autorità di una forza gerarchicamente indicata come sostanziale. Fino al punto che ogni assunzione di soggettività è necessariamente una soggettivazione, ogni politica è una biopolitica.
Dunque, radicalizzando il tuo discorso ben oltre la sua lettera, la contraddizione teorica del Manifesto per un soggetto politico nuovo starebbe proprio qui: nell’aver tentato di criticare gli effetti della soggettivazione moderna (i dualismi e le gerarchie della politica, a partire dal potere patriarcale per finire con l’autoriproduzione del ceto politico) ponendosi come obiettivo qualcosa che appare ancora – anche solo nell’ambiguità delle parole – come la loro causa: il soggetto politico, appunto. Tutti gli errori empirici di cui è stato costellato questo anno e mezzo di vita sarebbero in fondo niente altro che conseguenze dirette di questa contraddizione teorica: non può essere un altro soggetto a criticare il soggetto moderno né a raccoglierne un’eredità emendata dall’irreversibilità della sua consumazione.
Questo tuo ragionamento lo condivido in pieno, se non fosse che esso non fa i conti con un convitato di pietra, che si chiama rappresentanza. Provo a spiegarmi con più sensatezza.
Come sai c’è un libro di Zizek – che come tutti i suoi libri si possono o amare incondizionatamente o allo stesso modo odiare – che ha un titolo in italiano utile per questa discussione. Si intitola: Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica.
La prima parte del titolo si può assumere a sintesi del tuo legittimo rammemorarci di quanto il soggetto e le sue innumerevoli versioni e riproposizioni siano ormai consumati e poco credibili. La consumazione del soggetto non è cosa pacifica ma è cosa sofferente: il soggetto è scabroso e ciò è tanto più vero per la dimensione della politica. Mi pare questa un’ombra necessaria della tesi che orientava il Manifesto per un soggetto politico nuovo: i partiti sono finiti non solo nella loro materia concreta ma anche nella loro forma legittimata dal novecento. Ma noi che ne subiamo la fine rischiamo di esserne travolti come Nietzsche: proclamando che dio è morto, di finire impazziti piuttosto che davvero liberati dall’oppressione della morale degli schiavi. Certo, tra la distopia della follia e l’utopia inumana del godimento senza fine vi è una saggia via di mezzo che corrisponde a una tonalità politica che nel Manifesto io ho ritrovato (magari sbagliandomi): che chi proclama la fine della forma partito riconosce al contempo la propria orfanità. Non siamo né pazzi né superuomini, siamo politicamente orfani. E come si sa, l’orfanità è una condizione di partenza che va incontro a elaborazioni opposte: c’è chi s’irrigidisce nella nostalgia del padre e chi invece assume la propria condizione per immaginare il nuovo. Ecco il punto politico della faccenda e, forse, l’ambiguità di questo anno e mezzo di vita: non abbiamo ancora scelto come elaborare il lutto, dopo esserci dichiarati pubblicamente orfani. Ma questo stadio della vicenda non riguarda soltanto ALBA, riguarda per esempio la maturità politica di tutti quelli che si sentono orfani politicamente e ondeggiano tra la rabbia per la morte, la disperata urgenza di trovare un altro padre, il desiderio di tessere e immaginare una novità all’altezza di una crisi di sistema. Proviamo a identificarli, questi modelli di reazione all’orfanità predicata:
a. La rabbia della fine. Non è difficile riconoscere in molti atteggiamenti messi in atto in questo periodo una sintomatica della rabbia. Alcuni nostri (miei per primo) atteggiamenti durante CSP, per esempio; o anche questa incessante necessità di decostruire ogni discorso seppellendolo sempre nel sospetto di non essere fino in fondo nuovo, di essere ancora coinvolto con ciò che è morto. Ma c’è un altro sintomo con cui bisogna fare i conti e che, a mio avviso, rappresenta una questione di non poco conto. Dentro il Manifesto, ma anche dentro le cose che tu scrivi e in genere all’interno di ogni proposta politica che sta fuori dal recinto istituzionale e che tutti noi ormai frequentiamo, vi è la consapevolezza diffusa che l’humus che abbia conservato e riprodotto i semi della buona politica, immaginato e elaborato modelli di convivenza che sono già prefigurazione di un mondo divenuto altro, che abbia custodito le “virtù che cambiano il mondo”, questo humus sta sui territori, nei movimenti, nell’associazionismo diffuso e nella resistenza alla cattiva politica che fa da milizia armata dei poteri finanziari. Ora, io credo che questa consapevolezza sia più un’idea regolativa che altro. Non nel senso che non vi sia tutto questo e che tutto questo non sia oggi custodito solo lì. Ma nel senso che tale dote si scontra con un’interdizione della semantica del discorso politico, con un’incapacità di comprendere che, se la politica concerne le nostre vite e le nostre relazioni, i modi in cui scegliamo di vivere insieme, il politico concerne una risignificazione dei discorsi, delle pratiche in cui si decide collettivamente, delle argomentazioni, delle forme in cui si ascolta e ci si mette in discussione. A me pare che se la crisi del politico concerne in modo irreversibile la sfera istituzionale e i suoi soggetti per eccellenza – i partiti, la crisi della politica abbia contagiato (in modo reversibile, sennò non avrebbe senso neanche dialogare tra noi) in qualche modo parassitario anche gli spazi che ne possono rappresentare la cura. Vi sia cioè una crisi politica della società con cui dobbiamo fare i conti ciascuno di noi per primo. La malattia riguarda noi, anzi, riguarda me innanzitutto. Riguarda una violenza che concerne l’incapacità anche solo di praticare discorsi politici in cui il narcisismo non sia la guida e l’oriente degli incontri. Concerne questo delirante affermare che l’esito di un discorso politico debba coincidere con l’esito preteso e immaginato dal mio discorso privato (e con ciò, nel costringere ogni discorso che nasce come nuovo a piegarsi sempre alla stessa forza, allo stesso significato potente, maschile e violento della forza). Finisce per esercitarsi nell’incapacità, da parte dei movimenti, di dis-identificarsi fino in fondo. Solo allora può nascere una semantica nuova del discorso politico, a mio avviso. Sia detto per inciso: sono personalmente persuaso che un modello di questa crisi della capacità di distinzione tra semantica del discorso identitario e semantica del discorso politico sia quello che troppi ancora riaffermano come un modello di nuova politica: il referendum sull’acqua. Esso non è stato vinto perché tutti siamo improvvisamente guariti e divenuti veri animali politici, ma perché il suo scopo e la sua stessa configurazione referendaria rendevano quell’occasione ottima per non far sentire nessuna differente identità minacciata. Ecco perché quel referendum, la cui vittoria rappresenta l’unica ottima notizia degli ultimi anni, nonostante questo non è un modello riproponibile rispetto alla rappresentanza politica.
Certo, bisogna saper distinguere i sintomi e l’eziologia di questa “malattia” cui faccio riferimento. Sono infatti convinto che essa, dentro i territori, sia più una reazione che una semplice assuefazione al narcisismo dominante del nostro tempo (che è anzi oggetto della reazione). Vi è una diffidenza strutturale e del tutto giustificata nei confronti di tutto ciò che suona come “politico”, dal momento che in questi anni la politica è stata la dimensione contro cui si è stati costretti a difendersi. La rabbia è dunque nei confronti di un padre maledetto che non solo non ci ha fatto da padre, ma ci ha violentati e continua ossessivamente a depredare le nostre vite. Tutto giusto e la questione è forse semplicemente questa: può un figlio deprivato diventare un buon padre? O la sua rabbia è così radicale che non ci resta altro che accettare che divenga autodistruttiva? L’unica soluzione è rifiutare il modello dei padri rifiutando anche di poter essere noi stessi dei padri (cioè che vi siano semantiche liberanti del discorso politico)? Di sicuro questa è una delle sensazioni più forti di questo anno, la sensazione della sterilità.
b. la disperata urgenza di trovare un altro padre. Questa reazione mi pare quella più pericolosa e assai diffusa (spesso anche nella forma ipernarcisistica non dell’attendere un padre ma dell’esserlo per altri). E su questo io concordo con la tua critica a una scorciatoia soggettivistica che non possiamo permetterci. Tenendo però conto che essa è presente tra le persone che sono coinvolte dentro ALBA o che hanno semplicemente firmato il Manifesto. Essa si nutre dell’idea che la differenza tra “nuovo soggetto politico” e “soggetto politico nuovo” sia solo un gioco infantile di intellettuali e vanifichi proprio quell’ammonimento da cui si deve partire e che tu ricordi: “non c’è più tempo”. Solo che, come avviene del resto ogni volta che non c’è più tempo, si può reagire o agire, si può essere impulsivi o coraggiosi. Su questo la tua analisi è del tutto condivisibile, almeno per me: stiamo attenti a non soggettivare troppo, presi dall’ansia di doverci muovere, perché un eccesso di soggettività è un ritorno al luogo da cui ci siamo allontanati col Manifesto. E qui voglio essere ancora più chiaro, provando a sintetizzare alcuni sentimenti elaborati in questo periodo. Mi pare evidente che vi sia ancora una frattura tra coloro che pensano che la politica nuova si debba fare a partire dalla “crisi irreversibile dei partiti” e tra quelli che invece pensano si debba fare a partire dalla “crisi irreversibile della forma-partito”. È su questo, a mio avviso, che si gioca la critica al soggetto che tu ci ricordi. Nel primo caso il difetto è contingente, non strutturale: vi è una semplice deduzione empirica della crisi dei partiti. È evidente che in questo caso non si ponga la questione del soggetto, ma semplicemente della sua identità: dei cattivi soggetti a cui prima o poi contrapporre dei buoni soggetti. Come se un’etica del soggetto possa redimere la politica dei soggetti. E che, insomma, arriverà prima o poi il padre buono o, meglio ancora, lo faremo arrivare noi. Rispetto evidentemente questa lettura ma non la condivido (e credo, se non interpreto male, che neanche tu la stia condividendo). Ciò che è in gioco è infatti, molto più profondamente, un disaccordo sull’analisi complessiva della crisi sistemica in atto. In questo primo caso è come se si dicesse: la gravità della crisi non riguarda le forme delle connessioni politiche ma semplicemente la loro versione effettuale. Ma con ciò stesso, a mio avviso, si sottovaluta la crisi attuale: che non è una semplice crisi economico finanziaria, non è una semplice crisi di credibilità. È, appunto, una crisi strutturale, concerne cioè le forme che sostanziano le connessioni sociali e, inevitabilmente, coinvolge anche le forme della rappresentanza politica. L’idea che un nuovo soggetto politico – emendato dalla malaerba – possa tirarci fuori dalle secche dentro cui siamo è più o meno come l’argomento manifestatomi da un professore ordinario che domina dentro l’Università da trentanni che suona più o meno in questo modo: “poiché è da trentanni che l’Università è in crisi solo io, che conosco l’Università da trentanni, posso contribuire a salvarla”. Ecco, io credo invece che persino se ci fossero partiti credibili essi non potrebbero essere buoni (più o meno come penso che persino se ci fossero professori ordinari credibili, essi non potrebbero più essere buoni!). Semplicemente perché ciò che è messo in discussione è il livello formale, cioè tradizionalmente il modo in cui la materia si soggettivizza, si fa sostanza. Vi è da fare una deduzione trascendentale della crisi della forma partito e il suo esito sarà niente altro che la laconica constatazione che un modello di società è in crisi nel suo complesso e che ogni tentativo di resistenza regressiva (cioè di nostalgia di un padre) comporta un’analisi ancora parziale (e per certi versi rassicurante e paternalista) delle metamorfosi in atto.
In questo anno, ALBA è stata immune da questa tentazione? Certo che no. Anzi, credo che vi sia stata una insistenza non tanto sul soggetto (che è necessaria per quanto dirò alla fine), quanto sull’immediatezza della sua prospettiva e proposta. Ci siamo spesso comportati da “soggetto”, perlopiù senza volerlo ma spesso senza neanche provare a innovare le forme della soggettivazione. E non avendo affatto lavorato sull’immaginazione creativa, è stato quasi inevitabile finire per sostanziarci attraverso la forma-partito. Faccio solo un esempio: abbiamo dato luogo a una campagna di “tesseramento” (che solo col tempo è diventata semplicemente “adesione”) le cui procedure erano così complicate che neanche un partito vero le richiederebbe (d’altra parte il partito “vero” si alimenta di tessere “false”…). E anche lo statuto, di qualità altissima, comporta un eccesso di regole, come se trovare una nuova forma di connessione fosse il punto di partenza di ALBA e non il suo punto di arrivo, sul quale dover ancora elaborare. Abbiamo sostituito alla forma del partito un formalismo che ci ha ingessato e che ha anche costretto le nostre aspettative alla delusione: come se fosse possibile, in questo stadio, poterci contare, poterci appunto già identificare come un nuovo soggetto politico (ulteriore inciso: non mi interessa sapere quanti siano gli iscritti ad ALBA, perché sono certo che coloro che hanno ascoltato e recepito con interesse il Manifesto e che sono interessati a quell’analisi della società e delle pratiche politiche siano ancora tanti e che essi, legittimamente, possano non volere essere iscritti, cioè non “formalizzare” ciò che ancora si deve delineare nella sua “forma”. Considerare il numero degli iscritti come un fallimento o come un successo è proiettare su ALBA la forma partito e, con ciò, proclamarne il fallimento di principio).
Abbiamo anche difettato nella pratica democratica sia, da un lato, trascurando la dimensione non formale ma sostanziale della partecipazione e della deliberazione condivisa (evocando alcune volte il centralismo democratico con qualche ragione, non occupandoci delle forme della relazione a partire almeno dalla fecondità discorsiva della differenza di genere) sia, dall’altro, eccedendo nella richiesta ipertrofica di condividere ogni decisione; ogni cosa, persino ogni parola, deve essere condivisa e deliberata da tutti (cioè ogni parola di una comunità collettiva deve corrispondere a ogni parola del mio discorso privato, ALBA deve coincidere con le mie aspettative e, alla fine dei conti, deve coincidere con me! O un altro esempio di questo “narcisismo politico”: il fatto che ognuno universalizzi le proprie analisi e le proprie esperienze individuali. Se io ho avuto esperienze sgradevoli con qualcuno di un’associazione, quell’intera associazione è inaffidabile; se ho letto un articolo che definisce una cosa in certi termini, ho già le conoscenze necessarie per proporre una posizione a tutti su quella stessa cosa, ecc. La fine della “semantica del discorso politico”, come ho già scritto).
Non siamo stati in grado infine né di far lievitare i processi sui territori (per cause ogni volta differenti, per cui rifuggo anche qui dall’approssimazione di chi universalizza la propria esperienza e il proprio punto di vista) né di offrire alle lotte locali una credibile (e conosciuta) sponda e un riconoscimento d’insieme a livello nazionale (senza farne però un contenitore che sussuma dall’alto le particolarità). Insomma, è evidente che ci siamo o identificati troppo o dis-identificati troppo. Avrai capito che su questo io ritengo la tua critica non solo legittima ma del tutto condivisibile, almeno a titolo personale. E credo che sia anche da qui che si debba ripartire. Ma c’è un punto su cui divergo che la terza reazione può servire a illustrare.
c. il desiderio di immaginare il nuovo. Un orfano può lavorare sulla perdita per immaginarsi come nuovo. Può, ad esempio, trasformare la sua orfanità in una fraternità diffusa. Di sicuro questa elaborazione ha luogo solo se il nuovo è davvero nuovo, cioè non rimuove ciò da cui parte – che è la perdita, il lutto, l’assenza. Ciò che c’era è andato perduto per sempre. Ma cosa resta e come pensarlo, il nuovo che resta dopo che il vecchio è andato perduto? Anche qui, uscendo dalla metafora, io incontro negli scambi che mi coinvolgono due opzioni possibili. La prima si può sintetizzare così: il nuovo è tutt’altro rispetto al vecchio, necessariamente. Non può essere allora un “soggetto politico nuovo” perché, in quanto resta “soggetto politico”, non sarà mai davvero “nuovo”. La critica decostruttiva al soggetto politico non può presupporre un’”etica della ricostruzione”. Ma cosa resta della politica, fuori dal soggetto? Resta tanto, non c’è dubbio. Resta la politica come pratica di relazione e stile di vita, resta il potere costituente dei movimenti e delle comunità politiche che, rapsodicamente, possono farsi rete. Resta l’azione politica senza più alcuna necessità di “coscienza politica” (che presupporrebbe un deposito sostanziale, un soggetto o un partito). Tutte espressioni di una “liberazione” auspicabile e terapeutica, rispetto alla strozzatura del mondo che abitiamo. E spesso sono tentato anche io dal credere che questo sia tutto ciò che si possa avere: che questa biopolitica positiva da giocare nei nostri spazi privati (o intersoggettivi) sia l’unica forma intatta della politica. Poi però penso che si perde anche troppo e forse la nostra responsabilità è anche quella di evitarlo. Queste forme di critica ad ogni possibilità del soggetto sono forme tipicamente postmoderne. Uso questo termine senza alcun livore teorico ma nella consapevolezza che solo ora, dinanzi a una crisi così radicale, è legittimo definirsi postmoderni. Solo ora che la modernità è messa in crisi dallo stesso soggetto che l’aveva messa in piedi, il Capitale.
Cosa si perde, allora? Si perdono alcune eredità politiche della modernità che a mio avviso sono ancora le forme più radicali e preziose per pensare il conflitto sociale in termini di emancipazione per tutti (non le uniche certamente, non più): l’universalismo dei diritti, per esempio, per cui il potere costituente di una comunità che crede che l’acqua debba restare pubblica si autotrascende nella necessaria lotta per universalizzare tale diritto (non sono semplicemente i beni comuni ma è il diritto dei beni comuni a costruire la società dei beni comuni); il primato della politica sull’economia (quello per cui, in ultima istanza, oggi si è radicali anche semplicemente proponendo posizioni di neokeynesismo), la rappresentanza politica. Ed è proprio questo il punto decisivo, il convitato di pietra rispetto alla questione che proponi e anche rispetto all’anno e mezzo che c’è stato. Torno a Zizek e al suo sottotitolo, che evocava la necessità di una “ontologia politica”. Ecco, noi siamo ancora disorientati tra la voglia di rinunciare a qualunque ontologia politica, facendo a meno di qualunque soggettivazione, e la voglia di eccedere in ontologia politica, finendo per fare di essa la riproposizione dei soggetti (e delle loro forme) di cui abbiamo teorizzato la fine. Io credo, molto più semplicemente, che non si tratta di fare né l’una né l’altra cosa ma di riconoscere che solo lavorando sulla novità della sua forma e della sua organizzazione si possa davvero offrire un soggetto emendato dalle forme precedenti e capace di rigenerare la dimensione della rappresentanza, attraverso la quale riannodare i fili dell’universalismo perduto, dei diritti smarriti, della democrazia umiliata. Quel che io credo è che per ripartire con fedeltà agli intenti originari dobbiamo riconcentrarci essenzialmente su questo: lavorare per immaginare, teorizzare e praticare forme nuove di rappresentanza, a partire da un lavoro di “disincastro” dagli immaginari discorsivi più diffusi e violenti (di nuovo la differenza di genere come una pratica che emenda i nostri discorsi politici, innanzitutto), per continuare con una maggiore diffusione e condivisione della formazione con tempi più lunghi e meno “internettiani”, o con una modalità di partecipazione davvero più orizzontale ma anche più attenta alle “parole umanizzanti” (per esempio inserendo alcuni semplici accorgimenti che altri hanno già suggerito: non è più lecito scrivere mail che abbiano come unico obiettivo quello di distruggere qualcosa. Chiunque distrugge qualcosa deve contestualmente edificare qualcosa); offrire un modello più inclusivo e credibile di rapporto tra i nodi e il “centro”, ma anche chiarendoci sul fatto che l’autonomia dei nodi deve essere non solo una bella parola ma soprattutto una bella responsabilità (per i nodi stessi!): la priorità dei nodi implica che spetta ad essi lavorare sul territorio, costruirsi credibilità, rapporti sinceri, proporsi in forma di spazio pubblico e non come una nuova identità; lavorare sulla deliberazione inclusiva ma anche ricordandoci che essa, come tu giustamente sottolinei, non è una forma della democrazia diretta (e neanche una forma della “democrazia del pubblico”, in cui l’elemento di decisione è tutto sbilanciato sul versante della diffidenza, del sospetto e dell’ipercontrollo nei confronti di coloro che hanno un qualche compito di sintesi) ma presuppone e richiede la cura delle relazioni personali, la conoscenza e la fiducia, la lenta costruzione di una comunità politica e di discorsi e grammatiche condivise. Tante sono le cose da fare e a cui dedicarsi. Ma il loro effetto non sarebbe né dovrebbe essere, a mio parere, quello di de-soggettivare, quanto quello di ri-soggettivare a partire da forme nuove. Non è sul soggetto o meno che si gioca il futuro, ma molto più sulla sua capacità di manifestarsi o meno come nuovo. In questo anno e mezzo siamo stati forse troppo occupati a non apparire un partito pur dovendo sembrare un soggetto, senza la tenace fiducia che, affinché entrambe le cose possano avvenire credibilmente, vi è bisogno di lavorare su quella novità cui il Manifesto faceva riferimento in forma quasi programmatica. Insomma, e poi davvero chiudo:
- Porsi la questione della rappresentanza significa riconoscere la necessità di un’ontologia politica. È la democrazia rappresentativa a richiedere un soggetto fittizio, che finora è stato la forma partito. Fare a meno di ogni soggettivazione – non solo della forma partito – vuol dire consapevolmente uscire da quella prospettiva, con tutti i rischi che ciò può comportare (e in fondo dandola vinta al potere del Capitale che, in questo momento, altro non vuole che destrutturare tutto il sistema dello Stato, cominciando dal diritto e dalla democrazia rappresentativa).
- La rappresentanza non coincide né con la forma partito né con le scadenze elettorali. Se non coincide con la prima, vuol dire che dobbiamo cercare altre forme di mediazione che partano almeno dallo spostamento della sovranità verso i luoghi vissuti (dunque i comuni, una sorta di “federalismo municipale”) e da una diffusione il più possibile ampia e non oligarchica del discorso, del sapere, della decisione e della delega (le forme che definiscono l’organizzazione, in fondo). Se non coincide con le scadenze elettorali vuol dire che la rappresentanza deve innanzitutto dedicarsi a costruire comunità politiche riconoscibili e credibili e, all’interno dei luoghi dove si può fare della politica uno spazio di relazioni, provare sempre a costruire azioni politiche condivise che possano agire il conflitto anche sul piano elettorale. Per questo credo sia necessario che vi sia un’attenzione alla dimensione elettorale con una preferenza per gli appuntamenti locali (non tralasciando certamente un’attenzione e una insistenza affinché si producano anche significativi processi di novità a livello nazionale ed europeo. Di essi vi è bisogno anche per dare spinta al lavoro sul territorio, ma non scordandosi dove sta la priorità, dove è più lecito costruire processi innovativi e credibilità solide, dove sia più facile impegnarsi direttamente). Questo è il mio giudizio, sono pronto sia a rivederlo sia a prendere strade differenti, se le persone sceglieranno altro. L’essenziale è capire che lavorare sulla rappresentanza non vuol dire lavorare soltanto sulle scadenze elettorale e che, al contempo, questa consapevolezza può farci scegliere cosa fare e dove farlo (non il come farlo, quello credo non possa essere in discussione e debba coincidere, in negativo, con l’insistenza per stare del tutto fuori dal recinto dei partiti e, in positivo, ribadendo la necessità di “liste di cittadinanza attiva” a tutti i livelli) con più leggerezza, generosità e anche disincanto (quanto siamo poco indulgenti nei confronti dei nostri errori: ci prenderemo terribilmente sul serio?).
- Siamo dentro il paradosso per cui dopo un anno e mezzo il Manifesto appare perlopiù inattuato nonostante le sue analisi appaiano sempre più profetiche, urgenti e, se posso permettermi, uniche (nel senso che non mi pare vi siano ancora prospettive e proposte che siano riuscite a convalidarsi come credibili e complete in eguale misura). Un paradosso pieno di latenza positive, direi! Proprio per questo, sarebbe irresponsabile lasciare questo spazio incompiuto. Ma per compierlo fino in fondo bisogna ricominciare dal soggetto nuovo, né dalla fine del soggetto né da un nuovo soggetto.
- Infine tutto questo ha senso nella misura in cui ci assumiamo una responsabilità comune a partire dalla capacità di spostarsi dai nostri errori e dalle nostre prospettive. La mia prima parola politica, adesso, è sempre questa: la crisi della politica e della società è tale per cui io, prima di ogni altro, sono stato contagiato. Io sono malato e lo sono, mio malgrado, nelle mie pratiche di discorso, nelle mie azioni che presuppongono un certo modo maschile di rapportarmi al femminile, nelle mie aspettative e nei miei giudizi. Questo anno e mezzo mi ha sempre più persuaso che la crisi è così grave che solo una vera e propria metamorfosi spirituale potrà salvare ciò che vale la pena salvare (altro no, non tengo a tutto ciò che sta andando perduto). Ma ciascuno di noi è disponibile a riconoscere che il proprio punto di vista è malato e solo allora cominciare a parlare? Ciascuno di noi accetterebbe di perdonare più facilmente chi sbaglia per generosità piuttosto che chi giudica con severità? Credo che, se dovessi dire quale sia la proprietà nascosta su cui si gioca la capacità di trasformare la forma della rappresentanza, indicherei il tema della forza. Non vi può essere una rappresentanza nuova con la stessa “forza”. E la forza è un modo con cui costruiamo il nostro percorso sia fuori di noi (pensiamo a quanto siamo stati incapaci di “forza” dinanzi ai partiti di “CSP” – forse perché abbiamo disperatamente cercato alla fine di essere “forti come loro”, forti della loro stessa forza), sia dentro i nostri rapporti e le pratiche con cui cerchiamo di presentarci sui territori e alle persone. Scriveva Simone Weil: “c’è una sola scelta da fare. O bisogna riconoscere che nell’universo, accanto alla forza, opera un principio diverso dalla forza, o bisogna riconoscerla come forza unica e sovrana anche per le relazioni umane”. Se non affrontiamo questo problema così profondo eppure così concreto, saremo sempre in balia dell’impotenza o dell’eccesso di prepotenza. Ma se crediamo a un principio diverso dalla forza, dobbiamo anche impegnarci affinché esso sia incarnato nell’organizzazione che ci diamo e nella rappresentanza per cui scegliamo di impegnarci.
Sergio Labate