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Una lista di cittadinanza alle elezioni europee – [ inviato a Huffingtonpost il 4.1.2014]

Inserito da on Gennaio 4, 2014 – 6:49 pmNo Comment

Se ne parla ormai da tempo. Sono intervenuti tra gli altri Barbara Spinelli, Paolo Flores, Roberto Musacchio e Alfonso Gianni. Riprovare a proporre per le elezioni europee una lista che “di cittadinanza” cerchi di riunire in un fronte comune, e su un programma condiviso, i mille organismi base che operano nel paese e un numero crescente di personalità – giornalisti, scrittori docenti, artisti e uomini di spettacolo – impegnati a contrastare senza se e senza ma la politica delle larghe intese e di una governance europea completamente asservite alle esigenze della grande finanza? A molti di noi il solo pensiero di ripetere un’esperienza fallimentare come “cambiare si può”, per vedersi poi scippare il progetto dall’Ingroia di turno – magari affiancato dagli altri revenant della cosiddetta “sinistra radicale”, accomunati nella imposizione di un altro aborto politico, morale ed elettorale come fu Rivoluzione civile – fa accapponare la pelle.
Ma è altrettanto deprimente consentire che siano le ambizioni – vere o supposte, ribadite o negate – di quei “signori della politica” a bloccare a tempo indeterminato qualsiasi tentativo di restituire una sponda istituzionale a un popolo disperso, disilluso e sbandato, e tuttavia impegnato in mille iniziative di base e in lotte sempre più dure la cui posta in gioco è ormai spesso la sopravvivenza stessa dei suoi protagonisti.
Non c’è bisogno di essere dei patiti della rappresentanza parlamentare per capire quale effetto rivitalizzante potrebbe avere oggi, per un movimento e per una cittadinanza attiva che in anni di lotte non hanno ancora ottenuto l’ombra di un riconoscimento, una campagna unitaria contro l’austerity e a sostegno di un’altra Europa: un’Europa fondata non sulla finanza e sui diktat della BCE, ma sulla conversione ecologica di produzioni e consumi, sul reddito minimo garantito per tutti, su uno stretto controllo delle attività finanziarie, sulla restituzione delle loro prerogative, e delle relative risorse, a municipi e governi locali e, attraverso di essi, alla democrazia partecipata, alla rinascita e alla salvaguardia dei territori, alla gestione condivisa dei beni comuni e dei servizi pubblici locali. Sono questioni che in parte stanno al centro anche dell’appello a Napolitano, Barroso e Draghi – sottoscritto da Etienne Balibar e altri intellettuali italiani e pubblicato dal manifesto – per una svolta radicale dell’Unione Europea che la sottragga al giogo della finanza e del neoliberismo, senza peraltro che venga indicata la strada per imporre, o anche solo mettere all’ordine del giorno, un cambio di rotta del genere.
Per di più nell’anno che viene questa battaglia potrebbe non essere condotta in solitudine e potrebbe invece iscriversi in una mobilitazione comune di liste e di movimenti politici che in Grecia come in Portogallo e in Spagna, ma anche in Francia e in Germania, e in molti altri paesi, può trovare un’intesa sugli obiettivi dei movimenti che hanno riempito le piazze e animato un dibattito politico completamente nuovo in Europa e nel mondo nel corso degli ultimi anni. Obiettivi che nelle prossime elezioni europee possono trovare punti fondamentali di coagulo nel proposito di rinegoziare i trattati europei e nella candidatura alla presidenza della Commissione europea di Alexis Tsipras, segretario di Syriza, che della lotta contro i memorandum e le loro conseguenze catastrofiche per la società greca – ma anche contro le reviviscenze naziste indotte dalle politiche di austerity – sono insieme simboli e protagonisti.
Non siamo ancora pronti, ribattono in molti, anche tra coloro che non sono pregiudizialmente contrari a una partecipazione autonoma alle competizioni elettorali – soprattutto a livello locale – ma che sono usciti scottati, o sono stati scettici fin dall’inizio, nei confronti di “cambiare si può”. La strada da percorrere – dicono – è ancora lunga e non si può accorciare. Certo che non siamo ancora pronti! Da un punto di vista organizzativo, ma anche in termini politici, non siamo mai – o quasi mai – stati così divisi; così “a pezzi”. E’ il frutto delle sconfitte subite; o, meglio, delle vittorie che si sono tradotte in un nulla di fatto: si è vinto il referendum sull’acqua e sui servizi pubblici locali, e Governi, Parlamento e Presidente della Repubblica ne hanno completamente ignorato gli esiti, procedendo come bulldozer sulla strada delle privatizzazioni. Si sono vinte – con candidati che sono stati sostenuti da una straordinaria quanto inedita mobilitazione di base – le elezioni amministrative in diverse grandi città e loro si sono messi a fare l’Expò, l’american cup, a privatizzare acqua e trasporti, a trattare sprezzantemente qualsiasi mobilitazione di base. Si sono occupate decine di edifici, di fabbriche, di teatri per farne delle sedi dove progettare e mettere in pratiche nuove forme di cultura, di convivenza, di lavoro comune, di ricomposizione sociale e queste sperimentazioni sono state trattate come problemi di ordine pubblico. Poi hanno continuato a bastonare in tutti i modi (con il manganello e con la toga, ma anche con il gas CS e con cronache false e altrettanto asfissianti) i NoTav della Val di Susa e nessuno ha preso la parola contro la criminalizzazione di un movimento che è – anche – un baluardo contro le combine dilagante tra politica e mafia. E così all’Ilva, all’Alcoa, alla Jabil, negli ospedali, nelle scuole, all’Università, tra i disoccupati, i pensionati, gli esodati e le mille altre categorie senza lavoro, senza reddito, senza pensione, ecc.
Ma se ragioniamo in questo modo, senza apprezzare anche la forza e la chiarezza di tutto il fermento sociale che si è andato sviluppando nel corso degli ultimi anni, pronti a un passo successivo non lo saremo mai. Mentre i tempi incalzano. Il movimento del “9dicembre” – detto, soprattutto dalla stampa di regime, dei “forconi” – dovrebbe farci capire che oggi prepararsi e agire sono la stessa cosa; che è urgente mettere a disposizione un punto di riferimento chiaro e dalle radici solide alle molte realtà sociali in cui si riflette la scomparsa di criteri e strumenti per orientarsi nel caos sociale che investe tutti. E che è inderogabile prospettare la costruzione di una sponda istituzionale – ma anche e innanzitutto culturale e sociale: cioè aperta, flessibile e non dogmatica – ai fermenti che agitano una società stremata da sei anni di austerity, da venti di malapolitica e da altri decenni ancora di malgoverno.
Non a qualsiasi costo. Come molti di noi – ma purtroppo non tutti – si sono ritirati per tempo dallo stravolgimento di “cambiare si può” in “Rivoluzione civile”, così è bene mettere in chiaro che imboccare di nuovo, nelle mutate condizioni dell’oggi, e con alle spalle l’esperienza grottesca della lista Ingroia, la strada di una proposta nuova per un’altra Europa vuol dire chiudere le porte a qualsiasi tentativo di stravolgerla in senso partitico: sia per quanto riguarda simboli e definizione dei suoi connotati che per l’elaborazione del programma, per la scelta delle candidature (nessuna riproposizione di già eletti o di funzionari di partito), per la destinazione di eventuali finanziamenti pubblici (non dovranno mai più tenere in piedi partiti inconsistenti e relative burocrazie), così come per l’interlocuzione con il corpo elettorale prima e dopo l’eventuale elezione dei nuovi parlamentari.
Quello che si propone è portare nel Parlamento europeo dei rappresentanti che rispondano alle ragioni di chi li ha votati. Certo, la democrazia rappresentativa esclude giustamente mandati imperativi per gli eletti; per l’esercizio dei quali vanno promosse e affiancate altre forme di democrazia, in particolare quella partecipativa che impegna direttamente la cittadinanza attiva, soprattutto a livello locale. Ma la rappresentanza parlamentare non preclude comunque un rapporto serrato tra rappresentanti ed elettori: sia nella conduzione della campagna elettorale che, soprattutto, nella definizione delle scelte che si effettuano in Parlamento e nei rapporti con le altre forze politiche. E’ su questo, soprattutto, che ci si dovrebbe impegnare con i movimenti e con le organizzazioni disposte a essere partecipi di questo progetto.
Dire che le condizioni per un’iniziativa del genere ci sono già sarebbe illusorio. Ma si può lavorare d’impegno per farle emergere. Un’altra occasione del genere non si presenterà molto presto. E a quel punto potrebbe davvero essere troppo tardi.