L’Europa divisa in due (il manifesto, 6 dicembre 2011)
L’Europa, intesa come Unione europea, è divisa in due: non tanto tra nazioni deboli e stabili, popoli viziosi e virtuosi, porci e porcari (PIGS e guardiani); bensì tra “piani alti” e piani bassi. A tracciare questa linea di demarcazione è la Banca centrale europea che governa e custodisce la valuta in cui sono espressi i debiti pubblici e privati. Ai piani alti ci sono “i mercati”: una massa sterminata di denaro e “simildenaro” (valute, bond, certificati di credito, derivati, futures) la cui consistenza è stimata da dieci a venti volte il PIL mondiale; che può spostare (esentasse) in poche ore tanto denaro quanto tutte le banche centrali del mondo – quelle autorizzate a farlo – non ne riescono a creare in un anno. Ai piani bassi ci sono i cittadini dell’Unione, sempre più simili, nella loro condizione di impotenza e di dipendenza dai diktat della finanza, agli altri sei miliardi e mezzo di esseri umani che popolano il pianeta. E ci sono i loro redditi, le loro famiglie, la loro vita quotidiana, le loro associazioni, le imprese in cui lavorano. Niente di quello che accade o accadrà loro dipende più da una loro scelta: né “individuale” (esercitando la cosiddetta “sovranità del consumatore”), né espressa a maggioranza (esercitando la loro asserita “sovranità” di cittadini); né presente, né passata (nonostante che al loro lassismo da bon vivant, o a quello della parte più sfigata di essi, venga addebitata la responsabilità di quanto accade). Persino le differenze tra un cittadino greco, italiano e tedesco si attenuano di giorno in giorno: tutti vivono ormai sotto la cappa di una catastrofe economica su cui non hanno alcuna possibilità di influire. Perché a decidere non sono loro, ma “i mercati”.
Se questa è la vera ripartizione dell’Europa, la linea di demarcazione tra i due piani è invece meno chiara. Innanzitutto perché da questa parte del confine ci sono molti infiltrati: partiti e sindacati che si occupano più di predicare rinunce e sacrifici che di progettare un futuro dignitoso per le persone che rappresentano; economisti e giornalisti che imbrogliano i conti o nascondono origini e beneficiari del debito che ci strangola; imprese che vivono del peggioramento delle condizioni di coloro che lavorano per loro; e banche che, anche se ora si trovano a mal partito, hanno trascurato da tempo, con l’incoraggiamento dei governi, il loro mestiere – che è quello di far circolare il denaro concedendo fidi, mutui e prestiti a imprese e famiglie – per impegnare invece le loro risorse nel mercato assai più redditizio degli investimenti speculativi in titoli e derivati di ogni genere, o in progetti immobiliari senza futuro. Ma il guaio maggiore è che non si sa, o si sa troppo poco, chi c’è veramente dall’altra parte di quel confine: chi sono quei fatidici “mercati”. Per molti sono una forza impersonale, una legge di natura, un fenomeno incontrollabile come un terremoto o la caduta di un asteroide; per altri non sono che “la democratizzazione del capitalismo”, la concretizzazione degli interessi di una moltitudine: perché in Europa, come negli USA o in Giappone, sono ormai in milioni a dipendere, in tutto o in parte, da “risparmi” investiti in bond o altri titoli di credito: direttamente o attraverso una banca, un’assicurazione, un fondo di investimento; tutti organismi che per fare profitti sono in grado di mandare in malora da un giorno all’altro sia imprese (con i loro lavoratori) che interi paesi. E’ vero: in Italia meno che altrove, perché la previdenza è ancora in gran parte amministrata (male) come un “bene pubblico” – ma non certo “comune” – dall’Inps; e non da assicurazioni private (il “secondo pilastro”) a cui si cerca, finora con scarso successo, di trasferire una quota crescente delle pensioni. Ma il controllo che un assicurato ha sull’impiego dei propri “investimenti” è persino inferiore a quello di un cittadino su un governo, un parlamento o un consiglio regionale di donne e uomini in gran parte comprati e venduti. E poi, a gestire quegli organismi è la stessa categoria di persone che amministra i grandi patrimoni della speculazione, le tesorerie delle multinazionali, gli investimenti delle banche, le borse valori: il ceto cui appartiene anche chi comanda nelle organizzazioni internazionali, nelle grandi istituzioni “scientifiche” e, sempre più, nei governi; con un continuo scambio dei ruoli, grazie al sistema delle cosiddette “porte girevoli”. Sono loro “i mercati”, i sostenitori di una stessa cultura, i sacerdoti, in diverse salse, del liberismo. Finché di loro si sa poco o niente, sembrano dèi dell’Olimpo, pozzi di sapienza. Ma appena li vedi all’opera, si scopre che sono dei pirla come tutti noi. O anche un po’ di più. Monti e Marchionne sono esempi lampanti di banalità, ferocia contro i deboli, complicità con i forti, e inconcludenza. E ora che al posto dei clown abbiamo sfoderato i nostri “campioni” possiamo vedere che all’estero non stanno poi tanto meglio. Perché a chiudere loro l’orizzonte e impedirgli di fare i conti con la realtà è la miseria del pensiero unico, la cultura della crescita per la crescita.
Ma se un processo di trickle-down (di discesa e contaminazione dall’alto al basso) c’è stato, questo non ha mai riguardato la ricchezza (i guadagni dei ricchi che “scendono” e si diffondono tra tutta la popolazione), come sostiene l’apologetica liberista; ma solo il “pensiero unico”: non tanto, e sempre meno, con l’idea che il “libero mercato” porti crescita e benessere a tutti, in una visione positiva dello “sviluppo” e del futuro. Bensì, sempre più, con l’idea che “non c’è alternativa”; che così è e così si deve fare. Che questo mondo è una gabbia – o una galera – da cui non si può fuggire. Per questo il destino dell’Europa sembra indissolubilmente legato alle sorti, e alla bancarotta, del pensiero unico; che non è una teoria misteriosa, perché si riassume nella formula vecchia come il mondo – anche se le sue tecniche sono infinitamente più raffinate – di rubare ai poveri per dare ai ricchi.
Ma è proprio vero che non c’è alternativa? Ricordiamoci che apparteniamo a quella comunità che otto anni fa – in occasione delle marce contro l’intervento in Iraq – il New York Times aveva definito “la seconda potenze del mondo” (e che ha perso un’importante battaglia, ma non la guerra); a quella maggioranza assoluta che in Italia ha stravinto i referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici, issando l’acqua come propria bandiera (una guerra in cui siamo ancora tutti impegnati); all’universo di Occupy the world, che è l’interprete di sentimenti e progetti che coinvolgono il 99 per cento della popolazione mondiale. E che oggi abbiamo il compito di capire e dire come andare avanti. La crisi dei mercati finanziari ha reso evidente che l’dea stessa di democrazia e di rappresentanza si è dissolta, e che la decisione ultima sulle nostre vite, i nostri redditi, il nostro lavoro, è stata consegnata alla potenza extraterritoriale dei “mercati”. Che non hanno un piano strategico di riassetto del mondo, né tanto meno sono promotori di un “complotto” internazionale; ma, a conferma delle analisi di Marx, sono i soggetti di una gestione anarchica e turbolenta dell’economia e della società, la cui unica risorsa è quella di mantenere in mano le leve del potere anche quando una crisi mette alle corde non solo intere popolazioni, ma anche una parte di loro: Sansone non muore insieme ai “filistei”. Anche se esce malconcio.
Forse nei prossimi giorni i governi europei troveranno il modo di allontanare per un po’ il disastro; ma solo perché si ripresenti, di qui a un anno o qualche mese, in forma ancora più grave. Finché incomberà sulla nostra testa – ai “piani alti” del pianeta – una bolla finanziaria come quella che ci sovrasta, non ci potrà essere “uscita dalla crisi”. Per questo dobbiamo imparare a conviverci, apprestando i mezzi della nostra sopravvivenza e di una esistenza il più possibile indipendente da loro. Mettendo al primo posto la riterritorializzazione – per quanto è possibile – dei circuiti economici e una radicale ristrutturazione di tutti i debiti pubblici e privati insostenibili: un grande giubileo.
Di fronte al fallimento del modo in cui è stato governato il pianeta -soprattutto negli ultimi trent’anni – che ci fa rivivere i rischi di ottanta anni fa, compresa la reviviscenza del nazionalismo e del razzismo, occorre trovare la capacità di concepire, progettare e, ovunque possibile, cominciare a praticare un diverso modo di vivere, di produrre, di consumare, di amministrare. A partire dai nostri punti di maggior crisi, come quelli della produzione di auto, di navi e, a maggior ragione, di armi e tangenti (esemplificata da Finmeccanica). Occorre recuperare l’idea che la democrazia non può non coinvolgere la sfera economica, cioè il governo o gli indirizzi dell’impresa, pena la sua dissoluzione a qualsiasi altro livello. E che l’unica strada per affermare la democrazia economica è la conversione ecologica del consumo e della produzione (che cosa, per chi, con che cosa e dove produrre). Che questa conversione non deve coinvolgere – né potrebbe mai farlo – solo le maestranze di una singola impresa, come prospettavano le utopie novecentesche dell’autogestione, perché questo metterebbe in concorrenza i lavoratori di un’impresa con quelli di un’altra. Deve coinvolgere l’intera comunità che vivedel lavorodi un’impresa e che ne subisce l’impatto ambientale e sociale. Quanto più produzione e consumo, impianti e loro utilizzo, saranno vicini (“a km0”) o in rapporto diretto, grazie a un libero accordo tra comunità consenzienti, tanto più sarà possibile sottrarsi, senza bisogno di ricorrere a impraticabili protezionismi, ai vincoli di quella concorrenza spietata che spinge ineluttabilmente verso il basso i salari e verso il disastro le condizioni di vita di tutti. Per questo occorre un cambiamento radicale della classe dirigente: quella attuale è irrecuperabile, anche se imbellettata da titoli accademici invece che da fard e parrucche; ma soltanto la pratica sociale può produrne una veramente diversa. Non è il disegno utopico di una società futura, ma un progetto di organizzazione del conflitto sociale e ambientale per offrire un’alternativa, sia programmatica che operativa, al disastro che sta investendo l’Europa e il mondo.
Il nostro futuro è nell’Europa dei movimenti, di cui si discuterà venerdì prossimo a Firenze, al teatro Puccini.
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