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Sull’economia dei beni comuni (il manifesto, 9 luglio 2011)

Inserito da on Ottobre 24, 2011 – 1:05 pmNo Comment

La Grecia ha imboccato – a precipizio – la strada della decrescita. Lo ha fatto per “imposizione” della cosiddetta Troika (FMI, BCE e Commissione Europea) di cui Papandreu si è fatto interprete ed esecutore a spese dei cittadini e dei lavoratori del suo paese. Nessun economista al mondo pensa più che l’economia della Grecia possa tornare a “crescere” in un numero ragionevole di anni. Né che possa mai più ripagare il debito che la opprime, neanche mettendo alla fame i propri sudditi e svendendo tutto quello che “possiede” (cioè i servizi pubblici e i “beni comuni” del popolo greco). Per anni ci hanno detto che le privatizzazioni sono necessarie per rendere efficienti i servizi pubblici. Adesso è chiaro che servono soltanto a “far cassa”, per pagare debiti contratti a copertura dei costi della corruzione, dell’evasione fiscale, degli armamenti, delle grandi opere e dei grandi eventi inutili. Dopodiché il diluvio; che l’Europa e mezzo mondo stanno aspettando senza sapere che fare.

Ma la Grecia non è sola: non perché il resto dell’Europa la voglia aiutare (pensa solo a spennarla); ma perché nella sua identica situazione entreranno presto anche Portogallo, Spagna, Irlanda e altri ancora, tra cui l’Italia. Che è anche lei ben avviata sulla strada della decrescita: si tagliano welfare, investimenti (tranne quelli inutili, come il TAV Torino-Lione) e servizi, senza nessuna politica industriale e nessuna prospettiva di riconversione produttiva o di rilancio dell’occupazione. Certo la decrescita imposta da Tremonti non è quella predicata da Latouche e dal movimento per la decrescita felice. Latouche ha sempre ribadito (ma è una cosa assai difficile da spiegare in giro!) che non c’è peggior male di una decrescita in una società votata alla crescita.

Infatti i fautori della “crescita senza se e senza ma” (la totalità o quasi degli economisti) considerano la decrescita un precipizio senza ritorno. Ma le ricette per una ripresa scarseggiano. Il liberismo ha fatto fallimento, anche se nessuno lo dice apertamente e alcuni lo ripropongono come ricetta salvifica, tetragoni a ogni evidenza. Lo statalismo, nelle sue varie forme (forti: programmazione; flessibili: keynesismo; la pianidicazione di tipo sovietico non lo propone più nessuno), è disarmato: perché mancano i soldi e si ha paura di rompere il tabù dei bilanci, che sono fatti di debiti e quindi in mano alle società di rating. Ma soprattutto, perché bisognerebbe ammettere che per salvare il salvabile è necessaria una riconversione radicale dell’apparato produttivo e della distribuzione del reddito, invece di delegare a ciò – e “a modo loro” – i mercati.

La Grecia è un piccolo paese, ma potrebbe avere un grande potere di ricatto: il suo default trascinerebbe con sé le finanze di mezza Europa (e di molte banche USA) e con esse l’euro; e isolarla, escludendola dall’euro, posto che sia fattibile, sortirebbe lo stesso effetto. Basterebbe quindi che Papandreu, che a differenza di Zapatero, non ha alcuna responsabilità per l’allegra gestione della finanza da parte del precedente governo (con avallo, e conseguenti benefici, di Goldman&Sachs, allora diretta in Europa da Mario Draghi), si schierasse dalla parte dei suoi concittadini che si oppongono alla svendita del paese. L’Unione Europea sarebbe allora costretta ad aprire la borsa, non solo per la Grecia, ma per tutti gli Stati membri in difficoltà. Ma un’operazione del genere – per la quale non mancano proposte operative di “ingegneria finanziaria” – avrebbe forse senso per finanziare un programma di riconversione produttiva, che oggi non c’è e a cui nessuno pensa. Mentre non serve a niente se da essa si aspetta che rianimi mercati e produzioni in sofferenza, risospingendoli verso una crescita di cui, per lo meno in Occidente, non ci sono più le condizioni.

Liberismo e statalismo si stanno dimostrando entrambi fallimentari perché sono ormai una stessa cosa. Ogni giorno constatiamo che la libertà d’impresa – soprattutto nei confronti dei lavoratori, più che nella concorrenza – ha bisogno, per potersi esercitare, dell’intervento statale, e di fondi pubblici “a perdere”. Ma quei fondi non servono più a “dirigere” l’apparato economico verso obiettivi specifici e in qualche modo condivisi (in fin dei conti siamo in democrazia). Servono solo per tenere in piedi le imprese e le loro “libertà”. I casi recenti della svendita della Grecia, o quello del TAV Torino-Lione, o l’accordo interconfederale siglato anche dalla CGIL che trasforma i sindacati in strutture aziendali – solo per ricordare le notizie più recenti – pur nella loro estrema eterogeneità, sono lì a dimostrarlo.

L’alternativa non è dunque tra statalismo (o dirigismo) e liberismo, tra più Stato o più mercato; è tra il connubio inestricabile di liberismo e statalismo che contraddistingue il processo di globalizzazione in corso e politica dei beni comuni: una politica mirata a sottrarre la gestione di una serie di beni, di servizi e di attività tanto alle regole del mercato, che sono quelle della finanza internazionale che governa ormai anche gli Stati, quanto alla gestione degli Stati, che di quel “governo”, esterno e contrapposto a qualsiasi forma di controllo democratico, sono ormai solo le cinghie di trasmissione.

Se c’è un tema unificante tra le diverse forme di conflittualità che animano la scena sociale in questo inizio di secolo (e di millennio), dalla Grecia alla Spagna, dal Medio oriente all’Islanda, ma anche, tornando a noi, dalla crescita dei GAS alla campagna referendaria per l’acqua, dalla resistenza operaia alla Fiat al movimento degli studenti o al ritorno in piazza delle donne, dalla Valle di Susa al riscatto di Napoli dalle montagne di rifiuti sotto cui la hanno seppellita sedici anni di gestione commissariale, quel tema è la lotta, in nome di una gestione condivisa e partecipata, senza deleghe, contro l’appropriazione pubblica o privata di una gamma più o meno ampia e più o meno definita di beni, di servizi e di attività. Lo ha spiegato molto bene Piero Bevilacqua sul manifesto del 3 luglio scorso. E’ cioè la politica dei beni comuni.

Beni comuni e non Bene comune. E’ una distinzione importante: la dizione beni comuni fa riferimento a forme di gestione diverse tanto dall’appropriazione privata che dalla proprietà pubblica. Cioè a forme di gestione partecipata, le cui modalità si stanno delineando – e non potrebbero farlo in nessun altro modo – nel corso di mobilitazioni, di lotte, ma anche di iniziative “molecolari” e di incontri di studio, indipendentemente non solo dalle divergenze lessicali, ma anche da quelle ideologiche e dottrinarie, che sono per molti versi altrettanto irrilevanti; o quasi. Bene comune (con la maiuscola) fa invece riferimento a una coincidenza di interessi che, se può essere ipotizzata in via teorica nei confronti della sopravvivenza della vita umana su questo pianeta (a cui tutti, chi più e chi meno – o anche molto meno – prestiamo un’attenzione insufficiente), non esiste – e può essere ricercata, ma non necessariamente trovata – negli ambiti in cui si sviluppa il conflitto. Che è il motore di ogni possibile riconversione: dalla Valle di Susa alla gestione di ogni altro territorio; dalle politiche energetiche all’agricoltura e all’alimentazione; dal rifiuto della guerra alla difesa della dignità di chi lavora (e di chi è senza lavoro); dall’accoglienza degli immigrati alla valorizzazione dei saperi; e così via.

Nel mondo di oggi un bene è “comune” non per natura, ma se, e solo se, è sottoposto a modalità di gestione che lo sottraggono a qualsiasi forma di appropriazione: tanto da parte di un’impresa (privata o pubblica), la cui logica è comunque il profitto, l’accumulazione del capitale, la “crescita” fine a se stessa; quanto da parte di una struttura pubblica, se questa esclude qualsiasi forma di condivisione della gestione – o per lo mano di controllo, a partire dalle regole elementari della trasparenza – o di coinvolgimento dei diversi destinatari dei suoi benefici (quello che economia e diritto chiamano “utilità”) e dei suoi costi (sociali, sanitari, ambientali: quelli che l’economia chiama”esternalità”).

Per questo i “beni comuni” non saranno mai del tutto tali; saranno sempre attraversati da una frontiera mobile che si sposta in avanti o all’indietro a seconda del grado di controllo che i territori e le comunità di riferimento riusciranno a esercitare su di essi. La politica dei beni comuni è, e resterà a lungo, un work in progress. Ciò apre il terreno a un dibattito pubblico sul come dare attuazione ai risultati del referendum contro la privatizzazione dell’acqua; risultati che i signori delle “utilities” stanno già cercando di mettere in discussione. Ma anche a un dibattito sulle forme – che sono differenti – di controllo dal basso e di condivisione della gestione di tutti gli altri servizi pubblici locali che, in linea di principio, l’esito del referendum ha reso possibile sottrarre a una gestione privata o finalizzata al profitto. La stessa cosa vale per molti beni “immateriali”: dalla conoscenza all’arte, dall’educazione (permanente) all’informazione. Forse sono cose come queste quelle che Marx intendeva come controllo del genere umano sulle condizioni della propria riproduzione; quelle che per più di cent’anni il movimento operaio, socialista e comunista, ha interpretato invece, e cercato di realizzare, come gestione statuale dei processi produttivi.

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