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Ricostruire l’Europa

Inserito da on Marzo 15, 2014 – 11:58 amNo Comment


L’Europa sta marciando verso la sua dissoluzione. A spingere verso il baratro l’Unione e, insieme a lei – uno a uno o tutti insieme – la maggioranza dei paesi membri, sono i falsi europeisti e una cultura formalmente “liberista”, ma in realtà ragionieristica e statalista che la governano nell’ interesse di un pugno di grandi banche di affari, di assicurazioni, di fondi di investimento, di grandi società multinazionali, di speculatori privati che ormai controllano la metà della ricchezza dell’intero pianeta. La catastrofe a cui va incontro l’Unione la si vede innanzitutto ai suoi confini: nell’impotenza dimostrata nella crisi ukraìna (analoga a quella di un ventennio fa nella crisi jugoslava), ma anche nell’inconsistenza della sua politica nei confronti del conflitto tra Israele e Palestina, delle trascorse primavere arabe, del disfacimento di una Libia ormai preda di anonimi “signori della guerra”, del conflitto sociale in Turchia, ed altro. L’arma che l’Unione europea avrebbe dovuto usare e non ha messo in campo non è solo una chiara linea di condotta diplomatica (che non esiste); è soprattutto un sostegno sostanziale alle forze democratiche in campo, nel nome di una solidarietà capace di attraversare i confini. Ma come potrebbe mai mettere in atto una politica del genere una Unione che non ha niente da eccepire contro forze razziste e apertamente antidemocratiche come quelle al governo in Ungheria, che dell’Unione è paese membro? E che, in nome di una contabilità meschina e atroce, massacra il suo stesso popolo, come ha fatto e continua a fare in Grecia; e come sta facendo con Italia, Spagna e Portogallo? E che chiama questa politica una medicina, come ha fatto anni fa con la Grecia il nostro ministro Padoan, che si appresta a somministrare anche a noi lo stesso trattamento?

Quale trattamento? L’”austerity”: che in Italia significa, già oggi, pareggio di bilancio (la negazione di tutta la migliore scienza economica del secolo scorso): un obiettivo inattuabile, ma inserito lo stesso nella Costituzione per dare una dimostrazione pratica che della Costituzione ce ne si può e ce ne si deve fregare. Ma a partire dal 2015, “austerity” vorrà dire anche cominciare a restituire alle banche il mostruoso debito pubblico italiano (oltre 2100 miliardi) che si è andato accumulando esclusivamente sommando anno dopo anno gli interessi che i creditori hanno maturato prestando denaro allo Stato. Questo significa estrarre dalle tasche di chi paga le tasse (e non certo da quelle degli evasori), quasi cento miliardi all’anno per pagare gli interessi sul debito e, dall’anno prossimo, altri cinquanta miliardi all’anno, per vent’anni, per restituirne una parte: insieme, ogni anno, un decimo del PIL italiano. A queste condizioni il debito pubblico italiano, come quelli della Grecia (che ha già fatto default due volte, anche se nessuno lo dice), del Portogallo e domani di diversi altri paesi dell’Unione, sono insostenibili e portano diritto e filato al crack. Nessuno degli economisti appesi come a un cappio al mito reazionario della crescita del PIL come unica via da seguire per “sanare” i bilanci (cioè per continuare a ingrassare banche, speculatori ed evasori seduti, nei loro paradisi fiscali, su una montagna di denaro che non sanno più come impiegare) ha finora provato a spiegare come è possibile, non dico “rilanciare la crescita”, ma tenere in piedi il tessuto produttivo e sociale di un paese, con una simile pietra al collo. E magari, quegli stessi economisti si chiedono come mai la diseguaglianza sociale continua ad aumentare. E ci spiegano che è colpa di lavoratori, disoccupati, giovani e pensionati che continuano a “vivere al di sopra delle loro possibilità”…

Ma le elezioni europee sono alle porte e, anche se L’Europarlamento conta poco, i partiti che vogliono tornarci per farlo contare sempre meno sono proprio quelli che hanno sostenuto a spada tratta l’austerity per anni. Che però è impopolare e fa perdere voti; per questo quegli stessi partiti ora non perdono occasione per dire che quella medicina era sbagliata e che bisogna riprendere (moderatamente) a spendere. Un recente rapporto della Commissione Affari economici del Parlamento Europeo è drastico in questo giudizio; salvo poi ripetere che i vincoli di bilancio vanno mantenuti. Che cosa significa tutto ciò? Significa che si deve spendere qualcosa in più per non perdere le elezioni; per poi recuperare quei fondi da un’altra parte. Gli exploits di Renzi vanno esattamente in questa direzione; per questo difficilmente incontreranno in Europa un’opposizione rigida fino al giorno delle elezioni. Poi si tratterà di far tornare i conti. Di riprendere a fare “i compiti a casa”, per usare l’espressione più stupida che una politica senza più dignità abbia finora inventato, ma che ha costituito l’unica fonte di legittimazione dei governi di Monti e di Letta. Ora Renzi si fa gioco di quell’espressione; ma solo per dire che lui, i “compiti a casa”, li fa da solo, perché è il primo della classe; senza bisogno che glielo ricordi la maestra, cioè Angela Merkel. Infatti, Renzi “regala” (con i nostri soldi) 85 euro al mese a chi ha già un lavoro, e fa spere che li recupererà (li andrà a prendere, dopo le elezioni europee) con la spending review: cioè nella scuola (la sua ministra dell’istruzione ha già fatto sapere che gli insegnanti in Italia sono troppi…), nella sanità, nelle pensioni (anche se per ora nega); ma soprattutto taglieggiando ulteriormente, con il patto di stabilità – come si fa da anni – i Comuni: per costringerli a vendere a banche e privati (largamente foraggiati dalla Cassa Depositi e Prestiti, che amministra i risparmi di milioni di piccoli depositanti) i servizi pubblici locali (acqua, rifiuti, gase ed elettricità, trasporti, scuole materne e asili, assistenza agli anziani) e i nostri beni comuni (suoli, edifici storici, fabbriche, caserme e aree dismesse, spiagge e quant’altro). Ma soprattutto Renzi compensa il mondo confindustriale, che voleva appropriarsi anche di quegli 85 euro, rendendo permanente e obbligatorio il lavoro precario. I “compiti a casa” fatti da Renzi “da solo” non sono meglio di quelli dettati dalla maestra; che comunque resta sempre là a vigilare.

La risposta più grottesca a questo modo di procedere, ma anche la più “popolare”, che per questo dà la misura del degrado culturale (una vera e propria “dittatura dell’ignoranza”) in cui l’ideologia liberista ha fatto precipitare l’opinione pubblica è “l’uscita dall’euro”; il recupero della sovranità monetaria per riprendere, ciascuno per conto proprio, la via della “crescita”. La parola magica è “svalutazione”: una misura che l’euro non consente e la BCE non persegue. Svalutando una moneta tornata nazionale, si dice, riprenderanno le esportazioni e con esse gli investimenti, l’occupazione, i salari e il PIL, così da ripagare anche interessi e debito (che nel frattempo sarà raddoppiato, perché resterà contabilizzato in euro sempre più rivalutati). Ma se tutti i paesi che escono dall’euro (posto che sia fattibile) competono a chi svaluta di più, le esportazioni non aumenteranno e a subirne le conseguenze sarà il potere di acquisto dei salari. D’altronde, le imprese italiane che si sono attrezzate per “competere” sui mercati globali hanno continuato a esportare nonostante l’euro. Quelle soccombenti – e sono tante! – hanno ormai perso la gara, non solo in termini di salari (più di tanto, infine, non si possono abbassare) e di tutela di ambiente e salute; ma soprattutto in tecnologie: con i fondi per la ricerca azzerati o finiti nelle tasche dei baroni universitari è difficile reggere anche nei confronti delle economie emergenti, che la ricerca la finanziano, eccome! Ma la pretesa più ridicola dei fautori dell’uscita dall’euro è l’dea che in questo modo la Banca centrale (in questo caso la Banca d’Italia) torni a essere “prestatore di ultima istanza”: cioè torni a finanziare una spesa pubblica in deficit, invece di farla finanziare da banche nazionali e internazionali, che poi impongono la loro volontà al governo. Dimenticano, costoro, che il primo paese a negare alla Banca centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza (con il fatidico “divorzio” tra Governo e Banca d’Italia, che ha fornito il modello allo statuto della BCE) è stato proprio il nostro paese. E non per sbaglio, bensì per creare un vincolo insormontabile all’aumento dei salari e della spesa per il welfare. Se ora, tornando alla lira, tocca poi fare anche una battaglia in Italia per annullare quel “divorzio”, tanto vale sferrare la battaglia direttamente in Europa, dove potremo trovare al nostro fianco, se non i governi dei paesi dell’Europa del Sud (Francia compresa), certamente le forze decise a incalzarli su questo terreno. E non solo nel futuro Parlamento europeo, ma, cosa ben più importante, nelle lotte e nelle iniziative sociali e culturali contro l’austerity e le sue conseguenze.

L’Unione europea va dunque ricostruita dalle sue fondamenta (che sono quelle della Carta di Ventotene), come se fosse uscita, o dovesse uscire, da una guerra. Una guerra combattuta questa volta non con gli eserciti, le bombe e i carri armati, ma con le banche, il debito e gli spread. Che cosa significa questa asserzione? Significa che l’Europa che dobbiamo proporre a coloro cui chiediamo di ascoltarci, per definirne i connotati insieme a loro e con loro costruire e assemblare le forze per imporla, è un’Europa democratica (con un Parlamento che ne riformi la costituzione per rendere effettivi i propri poteri e i diritti di tutti); federale (non di un federalismo tra Stati o Regioni, ma tra autonomie locali – Comuni e territori – capaci di imporre le proprie esigenze ai livelli superiori di governo); pacifica (attrattiva per tutte le forze democratiche dei paesi sopraffatti da guerre civili o dittature); fondata sulla partecipazione della cittadinanza attiva (che può esercitarla in forme efficaci soltanto a partire dalle istituzioni di prossimità; cioè, ancora una volta, dai Comuni); orientata alla sostenibilità ambientale (cioè a una radicale riconversione produttiva, che è l’unica strada per garantire occupazione, reddito, salute e istruzione alla stragrande maggioranza della popolazione); inclusiva (che non trascura gli ultimi per privilegiare i penultimi, perché sa che in questo modo non si fa che dividerci e lasciare il campo libero alle forze dell’oppressione e dello sfruttamento); creativa (perché il lavoro libero, e liberamente scelto, è il solo a produrre innovazione, benessere e valorizzazione di quanto di meglio ciascuno può volere per sé e può dare agli altri).