L’Europa non è più, se mai lo è stata, quella che ci raccontano politici e media.
L’Europa non è più, se mai lo è stata, quella che ci raccontano politici e media. Dobbiamo imparare a ridisegnare i suoi confini, prima ancora che sulla carta geografica, nella nostra rappresentazione mentale. Ad aver allargato questi confini non sono solo né soprattutto i motori della globalizzazione: la “libera” (cioè controllata da un numero sempre più ristretto di uomini ricchi e potenti) circolazione di capitali, merci e informazioni; bensì le privazioni e la violenza esercitate direttamente sui corpi vivi delle persone.
Ai confini politici (meglio sarebbe dire ormai, amministrativi) dell’Europa c’è infatti una serie di guerre, ormai trasformata in belligeranza endemica senza più frontiere, che l’Europa stessa ha contribuito a scatenare e contribuisce ad alimentare, grazie soprattutto alla sua subalternità nei confronti degli USA, che quei conflitti hanno promosso e foraggiato, armando forze politiche che poi gli si rivoltano contro con quelle stesse armi, e che non si sa più come fermare: Israele e Palestina, Libano, Iraq, Libia, Siria, Ucraìna e, sullo sfondo, per motivi di lontananza fisica, ma con una grande influenza sulle sorti comuni, Eritrea, Niger e Nigeria, Afghanistan e Pakistan… Quei conflitti – insieme alla crisi ambientale e alla miseria indotta da politiche commerciali sempre più predatorie, hanno creato e continuano a creare milioni e milioni di profughi (numeri di fronte ai quali appaiono irrisori i “flussi” di profughi e migranti che l’Unione si adopera in ogni modo per arrestare con il programma Frontex o di scaricare sugli Stati più deboli ed esposti con l’arma di Dublino 3). Oggi essi premono ai confini dell’Europa: ma prima o dopo li sfonderanno in massa a meno di mettere in atto una politica di sterminio di cui già oggi si vedono le prime importanti manifestazioni. Perché al di là e al di qua dei confini “amministrativi” dell’Unione Europea sono ormai in funzione da anni veri e propri centri di annientamento psicologico e fisico di migliaia e migliaia di esseri umani a cui non si vuole riconoscere quei diritti che sono intrinseci a una cittadinanza che, se è, non può essere che mondiale. Al di là di quei confini “amministrativi”, a volte con finanziamenti italiani ed europei, come in Libia e in Sudan, a volte in forme affidate all’inventiva contrapposta di governi e migranti, come in Marocco, Egitto, Turchia, sono stati istituiti, veri e propri campi di internamento e squadre armate di pattugliamento per terra e per mare con il solo scopo di fermare quell’umanità dolente prima che arrivi a toccare il sacro suolo dell’Unione e di sottrarli allo sguardo dei suoi cittadini mentre vengono massacrati. Mentre al di qua di essi, si moltiplicano veri e propri centri di detenzione illegale, come i CIE in Italia, con costi e ruberie, che altrimenti indirizzati basterebbero a garantire a quegli uomini e a quelle donne imprigionate una vita decente per diversi anni; e vengono continuamente creati e sgomberati, per poi vederli risorgere altrove, campi per un popolo, quello dei sinti e dei rom, a cui molti governi europei stanno progressivamente negando il diritto di cittadinanza, persino a coloro che ne sono pienamente titolari. Ma questa non è che la punta di un iceberg di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini condannati all’inesistenza giuridica dalle leggi che istituiscono e puniscono il reato di clandestinità, destinati a girare da un ricovero di fortuna all’altro, da una stazione ferroviaria a una fabbrica abbandonata, dal greto di un fiume a un bosco, ben sapendo che la clandestinità produce, attira e moltiplica non solo la criminalità minuta, ma anche e soprattutto il reclutamento da parte della criminalità grande e protetta. Non si capisce come i promotori di queste scelte pensino di “venirne a capo”; quali punti di approdo possano intravvedere se non una recrudescenza crescente di questa violenza destinata a “normalizzare” e far accettare, passo dopo passo, una politica di sterminio di intere comunità. Infine, quelle guerre ai confini “amministrativi” dell’Europa, ma ben dentro il suo territorio “politico”, stanno creando anche nel cuore del continente un solco sociale ed esistenziale sempre più profondo. Un solco tra quei cittadini, quei residenti e quei migranti senza status sociale che mantengono ancora molti legami, stretti o laschi, o anche soltanto immaginari e ideali – e sempre più religiosi – con i loro paesi di origine e le comunità che in questi paesi vengono massacrate e offese, da un lato; e un numero crescente di elettori “autoctoni” sospinti da una propaganda politica e ideologica di “di destra” e da una conformistica volontà di adeguarsi e di inseguirla di tante forze “di sinistra”, a percepirsi e a viversi come un popolo invaso e espropriato della propria identità. La povertà, la miseria, l’emarginazione e la frustrazione prodotte dalle politiche di austerity dell’Unione Europea non fanno che radicalizzare la contrapposizione tra chi si sente escluso da un mondo “normale” a cui gli era stato promesso o aveva sperato di poter accedere e chi ancora pensa di appartenervi e vive nel timore di venirne emarginato ed è spinto a vedere in coloro che già lo sono per una “tabe originaria” la fonte di una usurpazione. Questa contrapposizione di cui si nutrono, rinfocolandola soprattutto per ragioni elettorali, gli imprenditori della paura, comincia a esercitare i suoi effetti nella proliferazione di imprese terroristiche – come l’ultima nella redazione di Charli Hebdo e nel supermercato kasher di Parigi -che estendono anche nel cuore dell’Europa i fronti delle guerre in corso ai suoi confini. E non ad opera della massa anonima dei nuovi arrivati, per lo più con mezzi di fortuna, che si vorrebbe fermare “chiudendo le frontiere”; ma ad opera di un numero crescente, ancorché molto ridotto, di giovani che la radicalizzazione della rabbia e della diffidenza verso una società che li respinge sospinge verso un’ideologia fondamentalista e la scelta di una violenza senza ritorno.
In un contesto del genere la gestione ragionieristica di debiti e spesa pubblica dettata dagli interessi che hanno preso il comando delle istituzioni di governo dell’Unione Europea si evidenzia sempre più in tutta la sua miseria, la sua cecità, la sua impotenza. Nei teatri di guerra il governo e i governi dell’Unione europea non hanno una politica per venirne a capo, se non riproponendosi come eterni comprimari delle iniziative belliche, sempre più prive di una visione strategica, degli Stati uniti e della Nato. Ma nei paesi membri dell’Unione – compresi quelli cosiddetti “forti”, come la Germania – dove le differenze sociali si stanno facendo insostenibili, l’austerity e la subalternità politica agli interessi della finanza mondiale stanno creando le premesse di una conflittualità a sfondo razziale che ha uno sbocco obbligato nell’azzeramento di tutte le aspettative riposte – fin dai tempi del manifesto di Ventotene – nella costruzione dell’edificio europeo; e in un catastrofico dissolvimento delle sue istituzioni comuni, a partire dall’euro.
Come molte altre regioni globali, la società europea non può più essere rappresentata solo dalla divisione e dal conflitto tra capitale e lavoro, i cui confini sono sempre più labili e le cui forme sono sempre meno definite; e nemmeno dalla tripartizione tra élite, classe media e gruppi marginali, dato che la classe media è stata assottigliata e devastata dalla crisi. Ormai troviamo anche qui, come altrove, l’1 per cento di “padroni del mondo”, una “casta politica” di destra e sinistra (ma sempre più di destra) asservita ai loro interessi; un “mondo del lavoro”, fatto di chi il lavoro ce l’ha, sempre più precario, disgregato e insicuro di sé; e un arcipelago di emarginati – il ritorno delle “classi pericolose” dell’800 – a un estremo del quale c’è il popolo dei reclusi nei campi di reclusione per profughi, immigrati e clandestini, e il cimitero dei naufraghi del Mediterraneo. Ma per fortuna non c’è solo questo. E quei legami che permangono tra profughi e migranti e le loro comunità di origine, se si creassero in Europa delle enclaves di tolleranza e di accoglienza, potrebbero tradursi in una base per una alternativa di governo anche nei paesi da dove sono fuggiti.
Il ciclo di lotte di questa fase storica è nato in Tunisia, sulla sponda sud del Mediterraneo, con le primavere arabe, presto “normalizzate” o schiacciate nel sangue, o entrambe le cose, non senza interventi militari devastanti e insensati, che dietro hanno lasciato di sé non solo macerie, ma anche giganteschi grumi di odio, milizie armate assetate di denaro e potere, instabilità permanenti. Perché quelle primavere, nate da un rifiuto del modello economico e sociale promosso ed esportato dall’Occidente – con il venir meno, ben prima dell’89, di un’emancipazione perseguita adottando, seppur solo formalmente, un modello “socialista” – non hanno trovato nei paesi della sponda nord del Mediterraneo un modello alternativo a cui rifarsi. E nondimeno il loro effetto è rimbalzato prima in Spagna con il movimento M15; poi a New York e in tutto il continente nordamericano, con Occupy Wall Street e Occupy the World, e poi di nuovo in Europa, con Syriza e soprattutto Podemos, che ne hanno saputo raccogliere e consolidare gli spunti più innovatori e creativi.
Ma se ancor oggi possiamo vantare in un’esperienza esemplare come la lotta della Val di Susa una delle punte più avanzate della resistenza contro lo scempio sociale, ambientale ed economico imposto dalla più recente evoluzione del “modello di sviluppo” occidentale (che ha dato vita e respiro a tutti quei NO-qualcosa che oggi costellano il panorama della lotta sociale in Europa), è ancora una volta sull’altra sponda del Mediterraneo, e nel cuore della guerra guerreggiata, nelle comuni autogestite del Rojava e nella resistenza di Kobane, che noi troviamo l’esempio più avanzato di autorganizzazione, di condivisione, di resistenza e, soprattutto, di rovesciamento radicale di quella sottomissione totale della donna all’uomo che costituisce la bandiera di tutti gli integralismi – di quello feroce e sanguinario del fondamentalismo islamico come di quello integralista, o sconciamente sessista: pari sono – in cui si sta rifugiando “la difesa dei valori occidentali”. Un esempio, quello del Rojava, che porta finalmente alla ribalta della lotta sociale – e purtroppo anche della resistenza armata e della guerra guerreggiata – quel rovesciamento dei rapporti tra uomini e donne che può minare alle radici tanto la ferocia dei regimi islamici integralisti quanto la cultura patriarcale che ancora domina e impronta di sé il potere politico ed economico in occidente.
E’ quel rovesciamento a cui ci invita da alcuni decenni la rivoluzione femminista per insegnarci ad affidare la lotta politica e sociale e il nostro modo di organizzare conflitto e partecipazione a una critica radicale dei mille risvolti in cui si incarna la cultura patriarcale