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La prima vera riforma di Renzi

Inserito da on Giugno 19, 2014 – 12:01 pmNo Comment

Come tutte le altre, anche la riforma della Pubblica Amministrazione promossa da Renzi consiste di grandi annunci e di pochi provvedimenti immediati che bastonano alcuni per far contenti altri, rimandando il “sodo” al dopo. Si dimezzano i permessi sindacali; si impone una mobilità anche territoriale (fino a 50 chilometri, che non sono pochi) e si allarga l’area dello spoil system nelle posizioni apicali. Il bastone è per i pubblici dipendenti, identificati come causa dell’inefficienza dell’”azienda Italia”. Quelli da far contenti sono i politici che potranno avere dirigenti obbedienti e i Brunetta di turno: cioè chi pensa, e non sono pochi, “pubblici dipendenti = fannulloni”. Quanto al riordino della PA, verrà in un secondo tempo… Ma intorno alla Pubblica Amministrazione si accumula in realtà un groviglio di problemi che investono l’insieme della società italiana:

Il primo è quello della produttività: l’Italia, si dice, continua a perdere posizioni nei confronti dei partner europei. Ma la produttività del lavoro si misura con il rapporto tra valore aggiunto (che aggregato a livello nazionale è il PIL) e ore lavorate. Ad aumentare queste (il denominatore) a parità di prodotto concorrono molti costi amministrativi (ingenti perché sono troppi, in termini di tempo e impegno di personale, gli adempimenti a cui fare fronte, dietro a cui si realizzano spesso vere e proprie estorsioni) e molte finte assunzioni di chi sta lì e non produce niente. Mentre a ridurre il valore aggiunto (il numeratore) concorre tutto ciò che viene registrato come costo diverso da quello del lavoro: sia le tangenti in senso stretto, nascoste sotto altre voci, che le regalìe e le consulenze di cui è gravato chiunque lavori in tutto o in parte per la pubblica amministrazione; poi i costi di un’urbanizzazione selvaggia (la logistica di un tessuto produttivo costruito senza piani non perdona) e quelli di una infrastrutturazione distorta perché il sistema dei trasporti manca di un disegno complessivo. Sono tutte cose che dipendono dalla “politica”, ma che passano attraverso la pubblica amministrazione, incidendo spesso sui costi dell’impresa ben più di quello del lavoro o dei guadagni di produttività prodotti dagli investimenti.

Il secondo problema si chiama: pubblico o privato? Stato o mercato? Finché ci si attiene al dogma che privato è efficiente e pubblico no, non se ne esce. Perché l’intreccio tra pubblico e privato è talmente stretto – specie, ma non solo, quando sono in ballo opere e servizi pubblici o forniture connesse – che è impossibile distinguere tra l’uno e l’altro. Il pubblico, si dice, è sottoposto a tutte le pressioni della politica, del clientelismo, del familismo; non ha un criterio per misurare le sue performance, perché l’unico criterio valido è il profitto, cioè il rapporto costi ricavi, a cui presta attenzione solo chi rischia in proprio un capitale. Per questo Renzi continua l’attacco contro i servizi pubblici, per privatizzarli. Ora, solo per fare un esempio, confrontate quell’affermazione con questa: “il Mazzacurati spiega che il magistrato delle acque non è in grado di assumere 30 o 40 persone, ‘allora gliele assumiamo noi’”. (Corriere della sera, 15.6.2014). “Noi” sta per Consorzio Venezia nuova, ente privato; il magistrato delle acque, invece, è un ente pubblico. E’ così dappertutto. Perché l’alternativa non è pubblico o privato; ma è tra pubblico e privato, da un lato, e comune, cioè trasparente e partecipato, dall’altro. Ci torneremo.

Il terzo problema si chiama merito: è l’ideologia ufficiale della competizione di tutti contro tutti, estesa dal mondo delle imprese a quello del lavoro. Ogni lavoratore deve mettersi in competizione con i suoi compagni: per un avanzamento o per evitare un arretramento, che può anche essere il licenziamento; e i lavoratori di ogni impresa devono mettersi in competizione con quelli di tutte le altre per non soccombere insieme alla “loro” impresa. La stessa logica si vuole introdurre nella PA. Il concetto di merito, che nasconde le diseguali condizioni di partenza, ma anche la diseguaglianza dei vincoli a cui si è soggetti o dei contesti in cui si opera, è ciò che dovrebbe decidere chi vince e chi perde e legittimarne il risultato. Ma chi decide del merito? La gerarchia, cioè chi si trova già “al di sopra”; e non per merito, ma per qualche altro motivo. Altrimenti con la storia del merito si risalirebbe all’infinito. Così affidando ai dirigenti il compito di valutare se stessi e i propri dipendenti, non si fa che perpetuare i vizi che si pretende di correggere.
Il quarto problema si chiama spending review. Il governo deve cavare dalla spesa pubblica 30 miliardi in tre anni per far fronte ai vincoli di bilancio. Anzi, dal 2016 dovrà cavarne fuori altri 50 ogni ano per rispettare il fiscal compact. Come si fa? Si tagliano i servizi per ripagare debito e interessi e si affida ai dirigenti della PA il compito di decidere quali servizi tagliare. Se non ci riescono si procederà con “tagli lineari”. In ogni caso la qualità del servizio pubblico peggiora drasticamente e si potrà dire che privato è bello; anche nei casi, come la sanità, in cui il privato si regge interamente sui soldi pubblici.

Come se ne esce? Come ovunque, la soluzione è una combinazione di partecipazione e conflitto. Partecipazione vuol dire che ad affrontare i problemi – inefficienza, corruzione, clientelismo, privilegi, opacità – e a definire le soluzioni non possono che essere, in forma condivisa, gli interessati: i dipendenti pubblici, ufficio per ufficio e servizio per servizio, in un confronto aperto con gli utenti e con la cittadinanza, che quel servizio lo paga con le tasse, o con una loro rappresentanza. In ogni struttura della PA che eroga un servizio, come un ospedale, un ufficio finanziario, un’anagrafe o una scuola – o qualcosa di presunto tale, come un Mose o un Expo – chi si trova a lavorare al suo interno o ai suoi confini ne sa abbastanza per ricostruire, in un confronto aperto con colleghi, cittadinanza attiva e utenti, un quadro di insieme. Presupposto e fine di questo confronto è la trasparenza.

Non si capisce perché solo Raffaele Cantone, e solo ora, debba avere accesso a dati come bandi, gare, contratti e bilanci che, resi noti a tutti per tempo e in forma leggibile, costituiscono uno dei presupposti ineludibili della democrazia: cioè la trasparenza; ovvero, open data, come la chiama Massimo Villone sul manifesto del 12.6.2014. Tesi con cui concordo, mentre dissento dall’altro rimedio proposto: il whisteblower, cioè affidare all’iniziativa del singolo la denuncia di ciò che non funziona o che è apertamente illegale, garantendogli adeguate protezioni. Naturalmente ben venga il whistleblower; ma quello di cui c’è bisogno è un’azione collettiva: la possibilità per i dipendenti, in contradditorio con utenti e contribuenti, di entrare nel merito di come deve essere organizzato e funzionare il loro servizio e di che cosa deve essere soppresso, cambiato, o denunciato come illegale. Naturalmente nel rispetto delle competenze specialistiche, che devono però essere anche loro sottoposte a un contraddittorio tra pari. (In un contesto del genere diventerebbe più semplice anche affrontare la mobilità interna: liberare gli uffici affollati da personale inutile, perché inutili sono le pratiche e le attività che svolge, per trasferirlo su base volontaria, con decisioni condivise e con adeguati percorsi di formazione, ad altri servizi). Si tratta nel complesso di un’opera di autoeducazione alla condivisione delle responsabilità e un presupposto essenziale per rifondare dal basso la democrazia. Ed è anche l’unico metodo efficace per riportare la spesa pubblica non entro i parametri del fiscal compact, ma entro quelli della sostenibilità sociale e ambientale. Il Mose dovrebbe insegnarlo a tutti, e una volta per tutte. Naturalmente, per iniziare e portare avanti un processo del genere occorre entrare in conflitto con la dirigenza. E non solo.
Utopia? vi chiederete. No. C’è anche chi ha già cercato di mettere in pratica questa linea di condotta di elementare buon senso. Due anni fa avevo avanzato su questo giornale una proposta del genere. Mi aveva risposto una dipendente del Comune – guarda caso! – di Venezia, documentando un’iniziativa simile che aveva preso con numerosi colleghi: avevano fatto parecchie riunioni e messo a punto altrettante proposte; ma il processo era stato ben presto bloccato dalla dirigenza. In quella lettera non si parlava al Mose. Ma è chiaro che un Comune che da anni si regge in quel modo, un processo di condivisione del genere non se lo poteva permettere.