Eurobond (il foglio, 25 agosto 2011)
La crisi continua a riproporsi in forme nuove e sempre più gravi perché è riconducibile a un eccesso di debito che circola per il mondo rimbalzando da un posto all’altro. Con il debito, negli anni del liberismo trionfante, è stato nascosto o mitigato un gigantesco trasferimento di reddito dal lavoro al capitale nei paesi dell’occidente: il 10 per cento dei rispettivi PIL. Dai “consumatori” insolventi quei debiti sono stati trasferiti a banche e assicurazioni; e da queste agli Stati che le hanno “salvate”, indebitandosi a loro volta con l’emissione di nuovi titoli; proprio quelli che oggi mettono in forse la solidità delle banche che ci lucrano sopra. In altri paesi a mitigare quell’esproprio era stato un welfare finanziato a debito: per evitare di far pagare più tasse. Ma in un’economia che non cresce dal debito non si esce. Qualcuno deve rimetterci.
Per Governi e finanza devono essere i lavoratori: con una stretta feroce a salari, welfare, occupazione, tasse sulla miseria, diritti: oggi in Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia; domani in Francia e chissà. Così, però, si stronca anche ogni ipotesi di crescita futura. Poi il pareggio di bilancio non elimina il debito pregresso; e se gli interessi aumentano, nemmeno il deficit. Con i tempi che corrono, prima o dopo si arriva al default.
L’altra strada è che a rimetterci siano i creditori – banche e “risparmiatori” che hanno loro affidato il gruzzolo – con la ristrutturazione del debito o un default programmato. Basterebbe che un Governo minacciasse di imboccarla per far correre in soccorso delle banche la BCE; e i famosi Eurobond salterebbero fuori subito. Ma nessun Governo ha forza, preparazione o interesse a imboccare una strada del genere. Eppure le soluzioni di ingegneria finanziaria non mancano: ma sono state quasi tutte “pensate” sotto l’incalzare della crisi e non quando si era in condizioni di adottarle. A un estremo c’è quella attuale: un fondo che ha il solo scopo di rimandare nel tempo il fallimento della Grecia, e che si rivelerà insufficiente non appena sarà chiaro che c’è ben altro da “salvare”. Ma già qui le difficoltà non mancano: la Finlandia, che aveva chiesto il Partenone a garanzia del proprio contributo, ora la pretende in lingotti d’oro; subito seguita da richieste analoghe di altri Stati. Quanto basta per far saltare il banco in tutta l’Ellade. Eppure quegli interventi servono per salvare le finanze di tutti, e non solo quelle degli Stati assistiti. Ma fallo capire in Germania; a un elettorato coccolato per anni con la favola di essere il più virtuoso del mondo (Gott mit Uns)! All’estremo opposto ci sono gli Eurobond: in parte per mettere “al sicuro” il debito degli Stati più fragili e in parte per la crescita (Prodi e Quadrio Curzio); oppure solo per la crescita (Pennisi). In un caso, a garanzia, l’oro delle banche centrali e le azioni delle aziende pubbliche ancora in possesso degli Stati membri: per l’Italia, vuol dire consegnare la politica energetica e dei trasporti nelle mani della BCE e, attraverso questa, in quelle dei capitali vaganti che ne acquisteranno i bond (il tutto mentre, con la manovra, si cerca di consegnare a qualche hedge fund anche i servizi pubblici locali). Nel secondo caso, a garanzia, ci sarà il rendimento delle “grandi opere” infrastrutturali finanziate. Quali? Giuseppe Pennisi, con Pasquale Scandizzo, è l’unico economista ad aver pubblicato, e senza vergognarsi, un’analisi costi-benefici quasi priva di dati a sostegno del TAV Torino-Lione. Andiamo bene! Ma non se ne farà niente. Quando, e se, arriveranno gli Eurobond, sarà ormai troppo tardi. Merkel e Sarkozy non hanno solo preso Berlusconi sotto tutela; ne hanno anche copiato le facoltà istrionesche. Il “vertice” del 20 agosto ne è un fulgido esempio.