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Ancora Profughi

Inserito da on Settembre 27, 2015 – 8:04 pmNo Comment

Governi dell’Unione europea si sono assunti pesanti responsabilità sia con iniziative dirette, sia come comprimari, sia con una accondiscendenza passiva, nel promuovere il caos e le guerre da cui promana l’attuale flusso di profughi. Ma non sembrano aver mai compreso le dimensioni reali di questo cataclisma sociale; né averne previsto le drammatiche conseguenze. Prevalevano, ieri come oggi, cinismo, ignoranza,irresponsabilità. Ma ora che la crisi li ha investiti in pieno non sanno affrontarla, non riescono a trovare soluzioni condivise e non concepiscono altro che vecchie ricette: la guerra.
La guerra agli scafisti libici – unico esito certo dell’ultimo vertice intergovenativo – è un alibi, un’infamia e un crimine. Un alibi, perché si cerca di far credere che i flussi che hanno investito l’Europa possano essere ridimensionati – e risolti – accogliendo i “profughi” (che provengono da paesi in guerra, “insicuri”) e respingendo i “migranti” (che provengono da paesi “sicuri”). Ma persino Prodi ha dovuto ricordare che nessuno Stato dell’Africa  – e meno che mai l’Iraq, l’Afghanistan o il Kurdistan – può essere considerato sicuro: infatti, nelle raccomandazioni ai turisti,il Ministero degli Esteri, quasi tutti i paesi di provenienza dei migranti sono considerati insicuri. Se tante persone rischiano la morte e ogni genere di violenza e sopruso per fuggire dal loro paese è perché sanno che là non possono più vivere. Un’infamia, perché tende a nascondere il fatto che se venissero approntati corridoi umanitari per permettere a chi fugge di raggiungere in sicurezza l’Europa, gli scafisti di mare e di terra non esisterebbero, non ci sarebbero state decine di migliaia di morti e molti di più potrebbero ancora esserne evitati. Un crimine,perché fermare gli scafisti in Libia (nessuno, però, ha proposto di far la guerra a quelli della Turchia, altrettanto pericolosi), posto che sia fattibile, significa ributtare i profughi nel deserto da cui sono venuti, condannandoli alle violenze e ai tanti altri modi dimorire a cui erano appena riusciti a sottrarsi.
I cosiddetti hot spot invocati e pretesi da Junker e Angela Merkel “in cambio” del sistema delle quote di richiedenti asilo accreditati, da distribuire tra gli Stati membri, sono l’inganno con cui si cerca o si spera di dimezzare il numero dei profughi da accogliere. Ma che cosa significa rimpatriarli, posto che si riesca ad accertarne il paese di provenienza? In un paese con cui per lo più non esistono accordi di rimpatrio, ma dove spesso non ci sono nemmeno autorità a cui riconsegnarli? Ovvio che, appena sbarcati, se non saranno imprigionati o soppressi, riprenderanno la strada per l’Europa, perché non hanno altra scelta. Appare comunque evidente la “gara” tra gli Stati membri dell’Unione per scaricarsi a vicenda l’onere di un’accoglienza che nessuno vuole accollarsi. La contropartita delle “quote” da imporre a ogni paese è che coloro che non rientrano in esse devono restare dove sono:se non potranno, come non potranno, essere rimpatriati, a farsene carico dovranno essere i paesi di arrivo: Italia e Grecia, perché, anche se volessero, non potrebbero circondare di filo spinato le proprie coste come fa l’Ungheria con i suoi confini. La Spagna, peraltro, l’ha già fatto a Ceuta e Melilla; la Grecia dell’ex ministro Avramopoulos, ai confini di terra con la Turchia; Francia e Regno Unito a Calais; la Bulgaria sta schierando l’esercito e Germania, Austria, Slovenia, Croazia, Repubblica Ceca e Francia hanno chiuso le frontiere meridionali…Così, anche se Angela Merkel ha fatto credere di avere forze e mezzi per affrontare la situazione, ancora una volta la soluzione con cui ripropone la sua leadeship sull’Unione consiste nell’assegnarne alla Germania i vantaggi, scaricandone i costi sui paesi più deboli ed esposti. Esattamente come è stata la gestione dell’euro.
Adottare sanzioni incisive, fino all’espulsione, contro gli Stati che rifiutano soluzioni “eque” e condivise in materia di accoglienza (quelle prospettate finora, come è evidente, sono del tutto inadeguate) sarebbe per l’Unione altrettanto gravido di conseguenze che rinunciare a farlo, accettando che ciascuno “vada per la propria strada” nel tentativo di scaricare sui vicini il peso di un flusso che non sa gestire. Così, se il braccio di ferro con la Grecia innescato dal governo Tsipras ha inferto un duro colpo all’immagine di un’Unione portatrice di vantaggi e di benessere per tutti i suoi membri, la vicenda dei profughi puòdare il colpo di grazia all’unità di una aggregazione di Stati tenuti insieme sempre più solo dai vincoli imposti dal debito e dalla soggezione a una finanza fuori controllo.
Ma che cosa comporta la trasformazione dell’Europa in una fortezza? Significa avallare e promuovere lo sterminio per mare e soprattutto per terra di chi  non riesce più a fuggire dal suo paese;moltiplicare ai confini del continente europeo caos e belligeranzeche finiranno per tracimare in Europa: non solo con i profughi, ma anche con conflitti sociali sempre più aspri e con il terrorismo; e consegnare il governo di ciò che resterà dell’Unione – cioè i suoi Stati membri sempre più divisi – a regimi improntati al razzismo. Chiunque sia a gestirli: destre, centro o anche “sinistre”.
Ma non c’è possibilità di accogliere tanti profughi se per loro non ci sono prospettive di inserimento sociale; casa, lavoro, reddito, istruzione e diritti per tutti coloro a cui l’Europa sarà costretta a lasciar varcare i suoi confini. Non si può abbandonare per anni, senza far niente e in sistemazioni di fortuna (che in Italia hanno fatto la fortuna di migliaia di profittatori), e meno che mai in carceri e campi di concentramento, centinaia di migliaia, e domani milioni di profughi. Ne va della loro dignità di esseri umani. Ma è anche una cosa intollerabile per tutti i cittadini europei che abitano e lavorano accanto a loro, o che sono senza lavoro e senza reddito, abbandonati dallo Stato. Ed è anche il modo migliore per alimentare in tutti sentimenti di rancore e pratiche di rigetto.
Il modo in cui vengono oggi trattati i popoli dei suoi Stati più deboli (l’esempio della Grecia è davanti agli occhi di tutti)  e i rapporti con i paesi africani e mediorientali, con i loro abitanti e soprattutto con quelli di loro che vogliono diventare, e già si sentono cittadini europei, è la negazione radicale di tutto ciò che la Comunità europea, e poi l’Unione, sembravano promettere con il richiamo ideale allo spirito di Ventotene. L’alternativa a questo processo di dissoluzione non può essere che il radicale abbandono delle politiche di austerità e il varo di un piano europeo pluriennale per l’inserimento sociale e lavorativo tanto di profughi e migranti, quanto dei milioni di cittadini europei oggi senza lavoro, senza casa, senza reddito, senza futuro. Ma, nei confronto dei profughi, questo è anche la condizione per aiutarli a costituirsi in base sociale e punto di riferimento per la riconquista alla pace e alla democrazia dei paesi da cui hanno dovuto fuggire. Cioè per un vero allargamento politico all’area mediterranea e nordafricana di un’Unione europea da rifondare dalle radici.
I contenuti di quel piano sono di fronte a noi: sono le misure e gli investimenti necessari a far fronte agli impegni sul clima che dovrebbero essere assunti alla prossima COP 21 di Parigi sul clima, se vogliamo che l’Europa faccia quello che è necessario per arginare gli imminenti cambiamenti climatici. Misure in grado di dare lavoro, reddito e sistemazione a tutti: profughi, migranti e cittadini europei. Se Angela Merkel ritiene di poterlo fare in Germania, con le sue sole forze e per la sua “quota” di profughi, non si vede perché non si possano creare le condizioni per farlo anche in tutti gli altri paesi europei. E’ questa Europa che non lo vuole. Un piano del genere, che ha una dimensione economica, ma che deve avere anche e soprattutto un risvolto sociale e una articolazione fondata sull’attenzione alle persone e alle vicende individuali di ciascuno, non può essere delegato né agli Stati, né agli organi dell’Unione, né alle logiche del mercato. Deve nascere, rapidamente, da un confronto tra tutte le forze sociali impegnate sul fronte del cambiamento e trovare in un soggetto adeguato, che al momento non può essere che la rete europea dell’economia sociale e solidale, le soluzioni e i meccanismi della sua attuazione. Per poi tradursi in una piattaforma da proporre in aperta contrapposizione con le politiche paralizzanti portate avanti da questa Europa.

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