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ABC PRE- E POST-ELETTORALE

Inserito da on Ottobre 11, 2022 – 10:13 pmNo Comment

Perché la crisi climatica e ambientale dovrebbe stare (ma non sta) al primo posto, per farne discendere tutti gli altri obiettivi?

Perché ne va della sopravvivenza della vita umana, o di una gran pare dell’umanità, e di tutte altre specie di esseri viventi con cui è interconnessa. Perché è la questione più urgente: nel giro di pochi anni il clima potrebbe raggiungere un punto di non ritorno (tipping point). Alcuni fenomeni, lo scioglimento della calotta artica, la fuoriuscita di metano dal permafrost e dai fondali dell’artico, l’inversione di alcune correnti oceaniche, la distruzione dell’Amazzonia, potrebbero innescare un feed back positivo, rendendo nel giro di un secolo la Terra un pianeta inabitabile. Perché ne siamo tutti colpiti in misura crescente, come ormai possiamo constatare direttamente, anche se in misura differente da un paese o da un continente all’altro e a seconda del grado di protezione che le risorse a nostra disposizione ci offrono. Ma ne siamo anche tutti responsabili, pur se in misura differente, a seconda del nostro reddito, dei nostri consumi, ma anche delle attività produttive in cui siamo impegnati o da cui dipendiamo. Se non si agisce si finisce al tempo stesso vittime e artefici di gran parte del nostro malessere attuale e della distruzione del futuro delle prossime generazioni (si tratta di nostri figli, figlie e nipoti). Perché qualsiasi iniziativa, lotta o rivendicazione volta al miglioramento della nostra condizione è priva di senso se non ci misuriamo con i processi che concorrono già oggi a vanificarne i risultati. Potranno mai crescere redditi, occupazione, salute, relazioni gradevoli, benessere in un mondo dove i disastri ambientali e le migrazioni si moltiplicano, acqua ed energia mancheranno sempre più spesso, virus e malattie sconosciute si diffonderanno ovunque, crisi di forniture e di mercati di sbocco metteranno fuori gioco i nostri posti di lavoro, scoppieranno nuove guerre per accaparrarsi le risorse? Per questo, chiunque vinca, i temi da mettere al centro dell’iniziativa sono questi, e non hanno niente a che fare con quello che i futuri governi si apprestano a fare o stanno già facendo: dalla guerra alle risposte risibili ma devastanti a una crisi energetica che loro stessi hanno provocato.

Si può contrastare la crisi climatica mentre si fa o si sostiene una guerra?

E’ evidente che no. La guerra è inaccettabile e insostenibile sempre, ma ancora di più oggi, perché produzione, uso e distruzione sistematica di armi sempre più micidiali concorrono in misura sostanziale alle emissioni globali di gas di serra; e perché la globalizzazione ha ormai reso quasi automatico l’allargamento dei fronti e, quindi, tanto più probabile il ricorso alle armi nucleari: le due maggiori minacce che pendono sulle nostre vite; una immediata, l’altra a più lento rilascio, ma non meno letale. Le guerre vanno contrastate con la mediazione; soprattutto prima che scoppino, quando i conflitti che possono innescarle sono già evidenti; ma né prima né dopo il loro inizio si può “mediare” mandando armi a uno dei contendenti o prendendone le parti. Lo capisce anche un bambino. Mediare significa esigere da entrambe le parti la rinuncia a qualcosa (chiunque sia o sia ritenuto l’aggressore) e più il conflitto procede più le rinunce sono dolorose. Ma i danni – in termini di vite, di vivibilità, di ambiente locale e globale – di ogni guerra superano sempre i vantaggi di una vittoria. E poi, quale vittoria? E a vantaggio di chi? Oggi una “polizia internazionale” non c’è; chiunque si arroghi quel ruolo lo fa nel suo esclusivo interesse, a spese degli organi – inadempienti – a cui spetta il governo delle relazioni internazionali e di ogni possibile interposizione.

Si possono impedire le migrazioni e respingere i migranti mentre clima e ambiente si deteriorano in tutto il mondo?

No. Oltre che cinici, obiettivi del genere sono irrealizzabili. La crisi climatica e ambientale è all’origine di molti dei conflitti e delle guerre scatenate per accaparrarsi le residue risorse sia locali che planetarie (l’era della loro abbondanza e disponibilità illimitata è finita per sempre). Si migra – in massa, in gruppo, o da soli – per sfuggire alle guerre o alla miseria che si moltiplicano mano a mano che ambiente e clima si deteriorano. E continueranno a deteriorarsi per decenni anche se, “per incanto”, i Governi di tutto il pianeta adottassero le misure necessarie a invertire quel processo. Per questo quei profughi vanno accolti, bisogna creare un ambiente accettabile sia per i nuovi arrivati che per chi è già qui da generazioni e creare le condizioni perché questi fuggiaschi, se vogliono, possano poi tornare nei paesi di origine da protagonisti della rigenerazione dei loro territori. Il che è possibile se quelle terre saranno in pace, se si cesserà di vendere armi ai contendenti, e se si renderanno ricchi di saperi, competenze e relazioni i tanti che desiderano farvi ritorno. Rigenerare quelle terre è ancora possibile, ma richiede il presidio di uomini e donne liberi di viaggiare e di creare relazioni tra le loro  di origine e quelle – le nostre – di arrivo.

Si può contrastare la crisi climatica continuando a perseguire la crescita dei Pil?

No. La globalizzazione ha diffuso ovunque e in tutte le attività un sistema industriale estrattivo e un’economia lineare che succhiano risorse dalla Terra e le restituiscono scarti che ne alterano l’assetto e ostacolano la rigenerazione degli ecosistemi: con predazioni ambientali, emissione di CO2 e altri inquinanti nocivi, solidi, liquidi e gassosi, con il consumo di suolo: cemento e asfalto, ma soprattutto con fertilizzanti e pesticidi sintetici che lo rendono sterile. L’unico antidoto a questi processi è ridurre il prelievo di risorse e il rilascio di scarti in tutto il mondo, trasformare in circolare l’economia lineare: cosa irrealizzabile se non si eliminano le produzioni inutili, dannose o di lusso.

Si può fermare o invertire il cambiamento climatico con nuove tecnologie?

Dipende. Le tecnologie non sono neutrali. Gran parte di quelle messe a punto negli ultimi due secoli sono state sviluppate per promuovere la crescita, l’accumulazione del capitale, e sono funzionali a questi obiettivi. Il che, di fonte ai cambiamenti climatici, significa consentire che l’economia continui a crescere, riducendo – eventualmente – gli effetti, ma non le cause della crisi climatica. Le due tecnologie che oggi vengono riproposte con forza per ridurre le emissioni sono il nucleare – a fissione o a fusione e la cattura del carbonio. Il primo ha già provocato immensi disastri irreversibili, con la quasi certezza che si ripeteranno, mentre e le misure di sicurezza adottate, pur insufficienti, hanno spinto alle stelle il costo del kWh prodotto. Una sua versione di quarta o quinta generazione non esiste e meno che mai esistono o esisteranno a breve impianti a fusione (presentati falsamente come intrinsecamente sicuri). La cattura del carbonio, per mandarlo sottoterra dopo averlo generato negli impianti termoelettrici, è costosa (consuma gran par dell’energia prodotta), pericolosa (la CO2 potrebbe riaffiorare in qualsiasi momento) e inefficace (si è già dovuto abbandonarla in molti casi). L’alternativa tecnocratica ancora più pericolosa – perché non se ne conoscono le possibili conseguenze – è la geoingegneria: “spegnere il sole”, cioè attenuare l’incidenza dei suoi raggi inondando l’alta atmosfera di specchi o di sostanze che non li lasciano passare, oppure gli oceani di polvere di ferro per stimolare la produzione di plancton che assorbe carbonio. In tutti i casi, esporci a rischi giganteschi senza nemmeno la certezza del buon fine. Ma ci sono anche moltissime tecnologie “buone”, a condizione che il

loro controllo sia in mano a una comunità e non a uno speculatore, privato o pubblico: tutti gli impianti che sfruttano le fonti rinnovabili (sole, vento, maree, cadute d’acqua, geotermia), la rete per governare l’agricoltura di precisione (risparmio di acqua e di additivi) o la mobilità flessibile (condivisione dei veicoli), i nuovi materiali per l’ediliza sostenibile (tra questi il legno!) ed altri rientrano in questa categoria.

Si può fermare o invertire la crescita senza farne pagare un prezzo insostenibile a chi si trova al fondo della scala sociale?

Sì, bisogna. La crescita finora ha beneficiato un pugno di ricchi – non l’1 per cento, ma l’1 per 1000 – della popolazione, mentre la maggioranza ne sta pagando le conseguenze in termini di reddito, salute, benessere, solitudine, in un mondo sempre più ingiusto. La crisi climatica e ambientale non farà che aggravare questa situazione: cominciano a scarseggiare l’energia (non solo per via della guerra in corso; soprattutto a causa della speculazione; ma anche, e sempre più, per scarsità dell’acqua per raffreddare gli impianti di termogenerazione) e l’acqua: ora nei fiumi, domani – e in molti paesi già oggi – da rubinetti, pozzi e fontane; e quando arriva provoca alluvioni, frane e devastazioni. Si interrompe sempre più spesso qualche produzione per mancanza di forniture o di commesse (o per qualche speculazione) e per questo si licenziano i lavoratori resi “superflui”. Tutto costa sempre più caro: si comprerà e produrrà sempre di meno. Famiglie e imprese sono piene di debiti, con il fallimento alle porte. La “decrescita infelice” – quella di un’economia votata alla crescita ma in crisi – e la “deglobalizzazione competitiva” – quella provocata da guerre, sanzioni, accaparramento di risorse e di mercati – sono in pieno corso. Però politici, media e manager continuano a invocare la crescita come unica soluzione per far fronte alla crisi. Ma la causa della crisi è proprio la crescita, la molla che tiene insieme il sistema e le sue diseguaglianze. Di fronte alla crisi climatica e ambientale che avanza, decrescita e deglobalizzazione sono inevitabili, ma perché non si traducano in ulteriori diseguaglianze e ingiustizie occorre governarle. Vuol dire potenziare le attività di cura delle persone, del territorio, degli ecosistemi, della vita sulla Terra ed eliminare in fretta i lavori nocivi per chi li fa, per chi ne subisce l’impatto, per chi viene danneggiato dalle merci prodotte e vendute. La cultura della cura, obliterata nel corso di quasi tutta la storia umana, dominata dal patriarcato perché sviluppata prevalentemente dalle donne, ma portata alla ribalta dal femminismo del secolo scorso, si è da tempo rivelata l’unico vero antidoto ai problemi creati dall’incuria portata al suo apice dal sistema produttivo degli ultimi secoli.

Ma si riuscirà a fermare il riscaldamento globale al di sotto di + 1,5 °C, come deciso al vertice di Parigi del 2015 e a far tornare il clima di una volta?

E’ praticamente impossibile e bisogna prenderne atto. Anche se l’Italia (che produce l’1 per cento delle emissioni che alterano il clima) o tutta l’Unione europea (che contribuisce con il 10 per cento) si attenessero agli impegni presi, molti altri paesi, come Cina, India, Stati Uniti, Brasile, lanciati nella corsa alla crescita, non li rispetteranno. Il clima della Terra, e quello dei nostri territori, è destinato a cambiare in peggio per decine e forse centinaia di anni. La vita sarà molto più difficile per tutti, tranne, se le cose non cambiano, per coloro che ne sono i principali responsabili. Senza cessare di battersi perché vengano adottate tutte le misure che possono contribuire a mitigare il riscaldamento globale (ma i nostri governanti stanno facendo esattamente il contrario: non solo la guerra, con tutti i suoi effetti perversi, ma il ricorso a gas, petrolio e carbone per far fronte alla crisi energetica, con impianti destinati a funzionare decine di anni prima di essere ammortizzati) bisogna cominciare a lavorare seriamente per l’adattamento alle nuove e future condizioni. In molti casi le misure da prendere sono le stesse, ma il centro deve essere la costruzione di comunità autosufficienti: non solo in campo energetico e agroalimentare, ma anche in quello delle produzioni industriali indispensabili, attingendo dagli scarti la maggior parte delle materie prime, promuovendo rapporti commerciali diretti, da comunità a comunità, con tutti i territori che possono fornire gli input necessari a tenere in piedi le produzioni essenziali. Qui le tecnologie amichevoli (friendly) possono essere di grande aiuto.

Che cosa può rendere praticabile e accettabile una prospettiva del genere?

Bisogna collegarla alle lotte e alle piccole iniziative diffuse dove si sperimentano veri cambiamenti; che sono tante, che sono destinate a crescere, ma che non riescono a collegarsi e sono esposte al rischio di venir sviate verso obiettivi irrealistici e inconciliabili con i limiti della vita sul nostro pianeta. Bisogna far vivere dentro quelle mobilitazioni la convinzione e l’orgoglio di essere protagonisti di una svolta radicale necessaria che dovrà coinvolgere – in modalità e tempi differenti, ma sempre più stretti – tutto il pianeta. Prendersi cura, insieme a tanti altri, di tutti gli esseri viventi è non solo indispensabile ma anche bello, perché rende la vita di chi lo fa infinitamente più ricca. La vera crescita è questa.

Ma chi può portare avanti un cambiamento del genere?

Non certo gli attuali governanti al potere in tutti i paesi del mondo, né i signori della finanza che ne tengono in mano le redini. Sono tutti cresciuti dentro un sistema che contempla solo la crescita, che ignora le sofferenze di chi ne subisce le conseguenze, che produce privilegi crescenti solo per loro. Al loro posto deve farsi strada e assumere responsabilità di governo una nuova generazione, quella di Greta, condannata a subire le conseguenze dell’attuale inerzia e per questo consapevole della necessità di cambiare le cose al più presto. Deve essere messa in grado di farlo partendo dalle scuole, dove si concentra la maggior parte di loro e da dove è partito il movimento Fridays for Future: scuole aperte agli esperti e alle comunità territoriali, capaci di trasformarsi in centri di auto formazione per tutti e di iniziative per il cambiamento. Ma non possono e non devono farlo prendendo il posto di chi ora ha il potere, bensì adoperandosi per diffonderlo il più largamente possibile, promuovendo ovunque e in tutti i campi – energetico, agroalimentare, della mobilità, della salute, dell’istruzione – l’organizzazione di comunità autonome capaci di negoziare tra loro gli impegni che ciascuna deve assumere nei confronti delle altre perché le filiere produttive indispensabili non si interrompano. Un vero confederalismo democratico.