La cassazione licenzia i cinque di Pomigliano
La Corte di cassazione, a nome e per conto dell’amministratore delegato della FCA, ha licenziato in via definitiva, annullando una precedente sentenza di appello che ne imponeva il reintegro sul posto di lavoro, cinque operai di Pomigliano (o, meglio, del reparto confino istituito da FCA nel cosiddetto Centro logistico di Nola): Mimmo Mignano, Antonio Montella, Massimo Napolitano, Marco Cusano e Roberto Fabbricatore, peraltro mai reintegrati nonostante il dispositivo della Corte di appello lo imponesse. Il “reato” che ha portato alla loro condanna definitiva è aver messo in scena davanti alla fabbrica, con una sagoma di cartone, un finto suicidio di Marchionne, per protestare contro i veri suicidi di un’operaia e di un operaio, e il tentato suicidio di diversi altri lavoratori, tutti quanti, come “i cinque di Pomigliano” e molti altri, discriminati da anni – usando come strumento la cassa integrazione – per il loro impegno e le loro lotte contro un regime di fabbrica oppressivo e feroce. Secondo la Corte di cassazione il “nesso causale” tra la discriminazione da cui quei lavoratori suicidi erano stati colpiti e il loro suicidio – sia portato a termine che solo tentato – non è provato, mentre sarebbe invece provata “la compromissione morale” dell’immagine del loro datore di lavoro provocata dalla messinscena del suo suicidio immaginario fatta con una sagoma di cartone. Povero Marchionne!
Non sono un esperto di diritto, ma a me pare che con questa sentenza la Corte di cassazione abbia introdotto nel nostro ordinamento giuridico, intestandola ai padroni delle aziende, una giurisdizione speciale che esclude i loro dipendenti dai diritti riconosciuti a tutti i comuni cittadini.
Se un normale cittadino, per esempio io, avesse organizzato quella messa in scena, non c’è nessuna legge della repubblica che ne prescriva la sanzione. Abbiamo visto alla televisione decine di manifestazioni di dubbio gusto in cui viene portata in corteo la bara di qualche personaggio contro cui si intende protestare, senza che la magistratura, a quanto mi risulta, abbia mai avuto nulla da eccepire. Ma quella messa in scena dai cinque operai di Pomigliano non era “una manifestazione di dubbio gusto”; era un urlo di dolore e di rabbia per il modo in cui la discriminazione contro i lavoratori maggiormente impegnati nella difesa dei diritti di tutti i loro compagni era stata spinta fino al limite di un suo esito così tragico. E come tale infatti è stato percepito e trattato da un numero elevato di cittadini e di cittadine solidali, di giornalisti, di intellettuali e di uomini di spettacolo – come Erri De Luca, Moni Ovadia, Francesca Fornario, Ascanio Celestini, Daniela Padoan e molti altri – tanto da guadagnarsi anche un posto di riguardo, e una canzone dedicata, al Festival di San Remo.
Così quello che un normale cittadino può ancora permettersi per esprimere le sue opinioni e la sua rabbia, un lavoratore non può più farlo, anche se il “reato di opinione” che gli viene imputato si svolge al di fuori del perimetro dell’azienda: per lui c’è un tribunale speciale e una pena non prevista dai codici – peraltro pesantissima: la condanna a vita alla disoccupazione e alla miseria – che ne oblitera per sempre il diritto alle proprie opinioni. Una pena tanto grave da indurre uno dei cinque condannati a tentare anche lui il suicidio cospargendosi di benzina per darsi fuoco davanti alla casa del vicepremier Di Maio. Ma, ovviamente, neanche in questo caso la Cassazione riuscirà a individuare un nesso causale tra questo ennesimo tentato suicidio e il combinato disposto della sua sentenza e di quella di Marchionne. D’altronde la sentenza ormai è stata emessa – fine pena: mai – e non c’è più bisogno di tornarci sopra.
Se questa vicenda giudiziaria, protrattasi per anni a spese di questa piccola pattuglia di lavoratori e di combattenti irriducibili, è approdata a quest’esito infausto, la responsabilità è anche di tutte quelle organizzazioni – e innanzitutto i sindacati confederali – che hanno come compito istituzionale la difesa dei lavoratori e la lotta contro le discriminazioni, ma che in questo caso hanno sostanzialmente rinunciato ad esercitarlo per una ragione meschina che si ritorce contro tutti gli altri lavoratori che pretendono di rappresentare; i “cinque di Pomigliano” erano e sono infatti attivisti di un sindacato di base che le confederazioni nazionali vedono come fumo negli occhi, fino al punto di non scorgere dietro di esso dei lavoratori e dietro la loro condanna l’introduzione di un regime di discriminazione e persecuzione che sta avanzando, sulle ali tanto del vecchio che del nuovo governo, in tutta Italia.